Chiameremo callahaniana quella comunità di ascoltatori che hanno sviluppato una dipendenza dalla voce baritonale di Bill Callahan, e dalle euritmiche ripetizioni di parole che si incastonano dentro le melodie letali che è riuscito a comporre in questi anni. Callahaniano potrebbe essere un particolare stato dell’essere, uno splendore lancinante che si ficca sotto la pelle e accarezza l’anima: come un analgesico slo-core scorre in vena esorcizzando fantasmi e strazi, un substrato lo-fi si mescola a un soffice cantautorato in cui riverbera Leonard Cohen, e così dentro le note di una chitarra avvertiamo il canto strozzato di uccelli che scorrazzano sopra fiumi penetrare la materia più ordinaria delle cose del mondo (“too many birds in one tree”). La storia di Bill Callahan comincia negli anni Novanta, immersa nell’epopea dell’indie-rock: sono gli anni dell’esplosione autentica di un intero movimento di persone che prendono in spalla la chitarra e tirano fuori le loro registrazioni in bassa fedeltà, vertici di un’era d’oro in cui si rincorrono i Pavement e i primi vagiti sonori di Will Oldham. A quel tempo Bill Callahan si fa chiamare Smog, e nonostante di anni intanto ne siano passati diversi quel ragazzo dei Novanta è ancora legato a Drag City, la storica etichetta indipendente di Chicago che ha pubblicato i dischi di musicisti come Jason Molina o Joanna Newsom (proprio lei, che aleggia come ex di Callahan e presenza/assenza in Sometimes I Wish We Were An Eagle).
Bill Callahan è rimasto sempre fedele a sé stesso. È sempre riuscito a spezzarci le ossa con quella sua vena musicale così tipicamente riconoscibile, quel suo marchio d’autore. “I sing for good listeners, and tired dancers”, sembrerebbe aver detto a proposito del nuovo album Sheperd in a Sheepskin Vest, uscito ancora una volta per Drag City. In fondo Bill Callahan non ha mai smesso di essere Smog, di flirtare con una certa idea di lo-fi, di tirare fuori i suoi mostri, i suoi fantasmi, di arrugginirci le scapole grazie all’incantesimo della sua voce. No, non l’ha mai persa quella voce, e insieme quella capacità di suggestione con immagini a cui riesce di sfiorarci e toccarci dentro a turno. Come quando per gli NPR Music Field Recordings — all’uscita di Dream River — si piazza da solo con la sua chitarra nel verde di New York per suonare in unplugged Small Plane, e ci spezza dentro. Così: semplicemente, e senza via di ritorno.
A sei anni di distanza da Dream River l’annuncio di un nuovo disco di Bill Callahan suona come uno dei grandi ritorni dell’anno, uno di quei dischi che si attende di ascoltare da capo a coda, ripetutamente, callahaniamente. Così Sheeperd in a Sheepskin Vest lo abbiamo atteso, e poi accarezzato mentre veniva rilasciato a pezzi in streaming. Ci siamo lasciati sedurre a poco a poco da un disco lungo e intimissimo, per riemergere convinti che Calllahan non abbia affatto perso il tocco di sempre, tantomeno l’ispirazione. A più di cinquant’anni Bill Callahan è riuscito a consegnarci un disco in cui tocca le vette di un intimismo fuori dal tempo: in perfetta controtendenza a-qualsiasi-cosa veniamo catapultati nella pura melodia, a tratti dentro un alt-folk cupo (che facilmente potremmo immaginare ambientato in un vecchio ranch), per altri versi in un’annichilente ballata di Nick Drake.
Sheperd’s Welcome ci dà il benvenuto in questo sogno sonoro distante cullato dalle corde di una chitarra che pare fuoriuscire dall’aldilà, finché non avvistiamo un cane nero sulla spiaggia (Black Dog on the Beach), per poi perderci nei fantasmi allucinati e visionari di un brano come Angela, e nella straziante The Ballad of the Hulk, in cui la pizzicata leggera sulle corde ci distoglie da ogni pensiero per affondare in una delle canzoni più belle di tutto il disco, che ci riporta in contatto con tutta la produzione precedente. Bill Callahan è tornato a scrivere, a comporre: ce lo confessa in Writing come sia bello tornare a scrivere (e, dopo sei anni, ascoltarlo), di come la musica venga semplicemente giù da una montagna, di come scorra, corra, attraversi tutto e torni, torni sempre — miracolosa. Callahan è tornato a scrivere senza occuparsi minimamente di politica in un’epoca di dischi politici; è tornato cantando le piccole cose, immerso nella sua vita familiare, nelle sue giornate, nelle sue ossessioni; ha ripreso in mano la chitarra e ha tirato fuori tutto il suo magnifico minimalismo.
È anche così che arriva quella coltellata al cuore di Morning Is My Godmother, che evoca Nick Drake per 2 abbondanti minuti: una canzone semplice, letale, perfetta, da cui riemergiamo tremolanti, e a fatica. In una pura atmosfera confessionale riprende dall’altro mondo persino Daniel Johnston per mano, per dirci che: true love is not magic / it’s certainty, e raccontarci scenari di vita quotidiana con la moglie nella devastante What Comes After Certainty. Vedremo colline, montagne, strade e lupi che entrano in casa, niente più funerali a cui vestire sexy e probabilmente niente più Wild Love – eppure a questo immaginario da cowboy in buen ritiro alla Neil Young, Callahan ci aveva già abituato da qualche anno. Il trittico Sometime I Wish We Were An Eagle / Apocalypse / Dream River ci aveva spinto a correre dietro a un sentimento di libertà e a un contatto diretto con la natura: un intero immaginario ci cadeva addosso attraverso quella voce calda, profonda, fiaccante. Riding For The Feeling è una delle parole d’ordine per penetrare dentro la musica di Callahan, dove anche gli addii in fondo non hanno una natura diversa da quella di correre dietro a una certa sensazione (come saltare in un burrone schiacciati da una forza di gravità). Correre diretti a schiantarsi dentro il mondo e vederne la magia, riemergere in ogni caso incantati.
Nel diventare padre Bill Callahan si riscopre ancora raccontatore e sussurratore di storie, di minuscole lullaby come Son of the Sea, di memorie liriche e riflessioni intime. Semplicemente uno dei migliori songwriter del momento, capace di regalarci canzoni di cui prendersi cura. È anche così che è riuscito a consegnarci un nuovo segreto e uno dei suoi album più belli, un lungo sogno sonoro e una confessione in 20 canzoni. Tutte le amarezze evaporano con il tempo, basta tornare a scrivere, a comporre, a liberarsi, dimenticare e sanare. Siamo soli con noi stessi, ma c’è l’umanità lì fuori, e siamo preda dell’amore, immersi nella natura. C’è qualcosa di più umano al fondo di tutto da riscoprire.
“Death is beautiful / We say goodbye to many friends / Who have no equals / With kisses sweet as hospital grapes / As she slips out the door / To flirt with the boys on the library floor”, ci confida verso il finale del disco in Circles, regalandoci un ulteriore frammento di poesia. Come un essere illuminato sulla copertina del nuovo disco, Callahan ci ha trascinato ancora una volta dentro quel mondo in cui mettiamo tutto in pausa per un attimo, e che ci fa respirare un sano e fraterno delirio. Ci risvegliamo ancora cullati dalla chitarra, sommersi e devastati. Che disgrazia sia già finito, ma è consolatorio sapere che possiamo rimetterlo daccapo. Forse è questo il cuore dell’essere callahaniani.