L’ultima meraviglia di Bill Callahan

Appena un anno fa, all’uscita di Sheperd in a Sheepskin Vest, avevamo parlato di una comunità callahaniana con una dipendenza dalla voce baritonale e ieratica di Bill Callahan. A quel disco Callahan aveva dedicato tempo e anima: Sheperd in a Sheepskin Vest usciva dopo un silenzio di cinque anni, sei anni dopo l’ennesimo incanto di Dream River, consacrando Bill Callahan – semmai ce ne fosse stato bisogno – nell’empireo dei grandi cantautori americani e oltre-americani. Gold Record è un disco più istintivo, più veloce, di quelli che arrivano all’improvviso: in un’intervista Callahan racconta che registrare Gold Record è stato come riemergere da una lunga relazione, andare al bar e tornare a casa con la prima che incontri. Se Sheperd in a Sheepskin Vest è la relazione di lunga durata, il disco della meditazione che affronta pure a muso duro il legame e il matrimonio, un disco di contemplazione, dilatato e sussurrato, Gold Record va incontro agli aspetti più primitivi e urgenti dell’arte di Callahan. È l’album che arriva d’istinto come arrivavano i dischi della giovinezza, quelli di quando Callahan era Smog e ci incantava coi suoi straordinari minimalismi alla Wild Love, il disco che riporta a quei tempi da home record, tempi in cui nella stanza a fianco Cat Power scriveva di getto Moon Pix, una cartolina infestata dalla Carolina del Sud. Eppure, eccetto per questa dimensione di velocità e istinto, di composizione calda, Gold Record resta un disco di Bill Callahan, dell’uomo maturo che riprende in mano il suo vecchio quaderno di appunti e tira fuori canzoni che si incastonano ai fianchi. Dieci pezzi che fanno a pezzi.

Gold Record è arrivato a tappe come un viaggio di strada, a poco a poco Bill Callahan rilasciava le canzoni finché non fossimo capaci di ricomporre tutto dentro un solo album, di mettere assieme le fotografie che avevamo raccattato durante il viaggio. Hello, I’m Johnny Cash – il disco comincia così, con quel pezzo di apertura Pigeons che è già un bel vagare e raccattare di commozioni. C’è Johnny Cash e c’è Leonard Cohen, c’è quel verso che ci riporta alla New York gelida di Famous Blue Raincoat, quel Sincerely, L Cohen che si schianta addosso, c’è la voce di Bill che è straziante e additiva e profonda, e anche se Pigeons probabilmente non toccherà le vette artistiche di quella vecchia canzone rievocata di Cohen – perché quelle parole di Leonard sono penetranti, ammalate, dolorose – anche se Pigeons è una canzone più calma e panteista, possiede lo stesso una bellezza rarefatta, al tempo coi tempi che viviamo. È un momento di gratitudine in cui Bill Callahan si fonde con l’universo intero, il momento in cui diventa Johnny Cash e Leonard Cohen, o due atomi del Bing Bang, qualsiasi cosa.

In un periodo sghembo e sconquassato come questo, che dall’America arrivi una voce solitaria di resistenza che ci riporta a sospenderci dentro il ritmo della chitarra, del folk puro che destreggia col rock, dei chiaroscuri country rievocatori di vecchi cowboy alla tv (tutto l’amore di Bill per i cowboy lo ritroviamo nel pezzo che neanche a dirlo si chiama Cowboy), una voce così placida che canta nel mezzo del delirio ha un effetto catartico e rassicura sul passaggio della tempesta. Con quella Protest Song che non è una canzone di protesta, ma è una protesta contro quelli che fingono di scrivere canzoni di protesta, contro le parole vuote e ordinarie di chi fa protesta solo per raccattare spiccioli strimpellando parole a caso alla tv; una canzone che viene da lontano, che non aveva mai trovato spazio nei dischi di Callahan fino a questo qui: sarà perché adesso è il momento perfetto per ricordare le canzoni bugiarde da cui diffidare.

Per tutto il disco Bill Callahan prova a ricordarci l’urgenza di essere autentici: autentica è la pizzicata minimale di chitarra che apre 35, autentica la breve storia di colazione di coppia al mattino che dipinge in Breakfast. Autentico è anche il ritratto di The Mackenzies, uno dei momenti più belli del disco, dove Callahan fa andare la memoria all’indietro fino al giorno in cui va a comprare la sua prima macchina: in tutti questi anni ha continuato a ricordare la coppia di venditori finché non è arrivato il momento di scriverne. Capita anche questo in Gold Record, Callahan si mette al setaccio di memorie e momenti che tira fuori come brevi racconti intarsiati di musica, decantati con la voce. Con Gold Record Bill Callahan continua la sua opera di confessione remota, di ballate oscure che incantano con chitarra e voce come strumenti prediletti. Perché Bill Callahan non è Johnny Cash, e non è nemmeno Leonard Cohen: è Bill Callahan, lo stesso Callahan che ci fa rincorrere tra ferite aperte come Let’s Move To The Country, e canzoni scarnificate e tradizionali come Ry Cooder.

Per finire coi brividi della conclusiva e sovrannaturale As I Wander, dove troviamo rimembranze di vecchie ballate dei Settanta, di certi furori dilianati e melodici della migliore Joni Mitchell: non stupisce che lo stesso Callahan la abbia scelta come canzone preferita di tutto il disco. E forse è questo l’episodio che aprirà le strade al prossimo album, alla prossima fermata: Bill Callahan fa suonare la voce come uno strumento perfetto – dilatata, spudorata, commovente, eterna.

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