Ci sono miracoli che avvengono quasi per caso. Cracovia, 2013: i Portishead hanno alle spalle tre dischi di studio, l’ultimo dei quali – Third, pubblicato a distanza di dieci anni dal secondo – ha ormai cinque anni. Si esibiscono al Sacrum Profanum Festival, nella suggestiva location delle acciaierie di Nowa Huta. Durante una delle prove è il promoter Filip Berkowicz a suggerire che Beth Gibbons avrebbe potuto cantare la Terza Sinfonia di Henryk Górecki.
Della sinfonia “dei canti lamentosi” vi avevamo ampiamente parlato tre anni fa in occasione dell’uscita di Sorrow, il disco con cui Colin Stetson, sassofonista canadese, reinterpretava l’opera più famosa del compositore polacco.
La Sinfonia è composta di tre movimenti, ciascuno dei quali ruota intorno a tre liriche di rara potenza, tutte incentrate sul tema della perdita e affidate al registro lirico di un soprano. Per Beth Gibbons si trattava di accettare una sfida ricca d’insidie. Innanzitutto perché in termini classici quello della Gibbons è un registro da contralto anche se non sono mancati nella sua storia – d’incredibile versatilità canora – puntate al registro superiore di soprano, come nella bellissima All Mine dal disco Portishead del 1997 – e in secondo luogo perché, naturalmente, tutti i testi sono in polacco. Accolta la proposta, la Gibbons si è affidata a due insegnanti di canto, l’inglese Caroline Jaya-Ratnam e la polacca Anna Marchwinska che si è occupata anche di perfezionare la pronuncia del testo originale.
Da quel momento e per alcuni mesi, fedele alla sua fama di autentica dedizione e di assoluto perfezionismo, Beth Gibbons si è immersa nello studio della partitura ma, come emerge – in maniera estremamente vivida – dal risultato finale, la cura e l’attenzione verso tutti gli aspetti tecnici sono stati solo uno strumento di controllo oltre il quale – acquisita la necessaria sicurezza – la Gibbons ha lasciato spazio all’elemento più importante – quello che la contraddistingue da sempre – una capacità innata di lasciar correre la sua voce lungo i binari di un percorso emotivo che ha fatto della resistenza a un’incontrollata esplosione la sua ragione d’espressione più alta e che dentro i confini autoimposti di una continua – e magnifica – implosione, arriva dritta al cuore del pubblico.
Il suono dell’orchestra – che aveva già registrato due versioni della sinfonia (l’originale del 1978 e in seguito nel 1994) è all’inizio straordinariamente denso, quasi cupo; col passare dei minuti e delle battute ecco che il direttore Penderecki ottiene dalla sua orchestra – con incredibile maestria – una pasta sonora che, grazie anche all’eccellente qualità di registrazione dal vivo, avvolge l’ascoltatore immergendolo letteralmente nello spazio di una stratificazione quasi fisica e materica del suono, che si sedimenta sempre più a ogni ritorno del canone con gli archi a disegnare voli leggerissimi durante tutta la parte del primo movimento – quasi venticinque minuti di musica – fino al bordone al minuto dodici che viene spezzato da poche note cristalline dell’arpa e dall’ingresso – attesissimo – della voce di Beth Gibbons.
La voce di Beth Gibbons è come un uccello di cristallo che vola sull’orrore del mondo. Ogni incrinatura rischia di spezzarla e invece quasi per miracolo la voce resta lì a librarsi nell’aria ma lasciando filtrare, attraverso le sue crepe, una luce accecante che proviene da un universo emotivo che lascia senza fiato e travolge e commuove e si fa balsamo sulle piaghe delle proprie inquietudini.
È lo stesso grande compositore e direttore d’orchestra polacco Krzysztof Penderecki a raccontare di come la sua voce sembra come apparire da un luogo lontano, da cavità sconosciute, umide e profonde, come il suo timbro capace di farsi improvvisamente grave sul finale del secondo movimento prima di lasciare spazio a un ipnotico e quasi minimalista ostinato.
L’incontro tra Górecki e Beth Gibbons sembra, così, quasi come il compimento di un destino. Come se lungo il corso di questi quarant’anni – la sinfonia fu composta tra l’ottobre e il dicembre del 1976 – le note che attraversano la musica di Górecki si fossero messe in cerca di una voce, per trovarla finalmente in quella di una donna dal carattere schivo e riservato e dal talento immutato. Restia da sempre a concedere interviste promozionali per i suoi dischi, la ragazza cresciuta in una fattoria del Devonshire ascoltando Nina Simone, Janis Joplin e Edith Piaf – e che quest’anno ha compiuto cinquantaquattro anni – ha centellinato con altrettanta parsimonia la sua produzione musicale: i tre dischi di studio con i Portishead che l’hanno portata a diventare una delle voci più riconoscibili non solo del movimento trip hop ma dell’intera scena di fine millennio e, nel 2002, il bellissimo disco Out of Season insieme a Rustin Man (Paul Webb dei Talk Talk); tutti in grado di metterne in risalto la versatilità timbrica e interpretativa e la grandissima sensibilità musicale. Poco altro ancora: la realizzazione di due colonne sonore – L’Annulaire e Baby Blues – per la regista francese Diane Bertrand.
È inutile girarci intorno. Fin dal primo ascolto si resta colpiti da una sensazione che si fa strada in maniera sempre più forte e trova conferma in tutti gli ascolti successivi come a inseguire la sua voce che sale sempre più in alto in questa preghiera disperata: siamo semplicemente davanti alla migliore esecuzione possibile che sia mai stata incisa della Sinfonia No. 3 di Górecki grazie – quasi per paradosso – alla presenza di una cantante non lirica, alla libertà di uno spazio non più concentrato sulla tecnica che lascia campo al vibrato commovente, alle fragilità e all’emotività di una voce che, da sempre, è capace di contenere – in un paesaggio a un tempo sacro e sensuale – mille contrasti in sé.
A chiudere il disco – su etichetta Domino Records – un’ovazione finale che arriva dopo un lungo, meraviglioso istante di compenetrato e rispettoso silenzio. La registrazione è, infatti, la testimonianza del concerto tenutosi la sera del 29 novembre del 2014 al National Opera Grand Theatre a Varsavia sotto la direzione di Penderecki. La sinfonia occupava l’intera seconda parte del programma della serata con la prima affidata a quattro composizioni; Polymorphia (1961) dello stesso Penderecki, Muzyka żałobna (1958) di Witold Lutosławski e le anteprime mondiali dei due compositori/chitarristi che in questi anni hanno affrontato con esiti più che felici la composizione di brani di musica classica contemporanea: Jonny Greenwood dei Radiohead con il suo 48 Responses to Polymorphia (2011) e Bryce Dessner dei The National con il suo Réponse Lutosławski.
E anche se tutto questo non è – purtroppo – raccontato su disco, dà l’idea precisa non solo dell’atmosfera della serata ma soprattutto della costruzione di un’attesa per l’ingresso della Gibbons che si è trovata a chiudere sul palco quasi un ideale dialogo a tre nel tempo con alcune di quelle band che hanno fatto – insieme alla sua – la storia della musica leggera dall’inizio degli anni novanta fino a oggi.
Alla bellezza della musica si accompagna – in un DVD – quello di un fondale visivo alla performance realizzato per l’occasione dall’artista John Minton, collaboratore di lunga data della Gibbons. E di Beth Gibbons colpisce, ancora una volta, tutta la fisicità che emerge mentre canta. Vederla sul palco a Varsavia, accompagnata da un’orchestra, è una sospensione dal tempo che riporta alla memoria – e come potrebbe essere altrimenti – il live a Roseland NYC del 1997, vero e proprio monumento alla musica dal vivo e pietra di paragone ineluttabile per ogni tentativo – spesso maldestro – di elevare la musica leggera, sia essa pop, rock, elettronica, sulle vette dell’accompagnamento orchestrale. Anche se qui è seduta come se fosse il primo violino dell’orchestra, c’è ancora quel ripiegarsi su di sé, le spalle protese in avanti, la schiena piegata quasi a rappresentare un guscio accessibile solo a sé stessa – l’intensità del canto come quella di un medium – all’interno di un rapporto con le proprie emozioni di eccezionale intimità. Immutato resta quel velo costante di erotismo che non si fa mai apertamente desiderio in virtù della sua stessa inaccessibilità e che racchiude il senso di un fascino che non sembra davvero conoscere debolezze.
È un disco prezioso, questo, che ha il pregio di ricordare ai più distratti il talento, l’umanità, la grandezza di Beth Gibbons che dimostra ancora una volta di essere una delle pochissime voci cruciali nel panorama musicale a cavallo tra i due secoli. E che sorprende – ben oltre ogni previsione e al riparo di ogni pur lecita preoccupazione – per la capacità – come una sorta di Billie Holiday bianca, più acida, più elettrica – che ha di riuscire a calare, anche dentro la rigidità di una partitura classica, tutte le atmosfere e i tormenti del nostro tempo.