Anche quest’anno le discussioni sono state animate, e i compromessi tra sé e gli altri all’ordine del giorno, ma alla fine siamo riusciti a cacciar fuori una top 30 degli album del 2015, e un racconto sonoro dell’anno che possa aiutare a orientarsi e a non perdersi tra le scoscese e tortuose strade delle millemila uscite dell’anno. Le domande sono le solite: saprai mai con certezza quale album ti è piaciuto di più e cosa ti ha conquistato davvero per tutta la durata dell’anno? E cosa dimenticherai per la strada?, riuscirai ad astrarti abbastanza dai tuoi gusti personali e restare lucido, oppure sarai influenzato dalle mode, dall’alcol, dall’istinto, dal brivido e la voglia di colpire, dalle previsioni meteo che ti mettono in testa un certo umore o un certo tipo di musica piuttosto che un altro (senza dimenticare il global warming), dai testi che ti hanno fatto male, o da quella melodia che canti in testa da giorni come un bebop? Che il 2015 vi sia sembrato un anno musicalmente sottotono rispetto a quelli precedenti, o che invece lo abbiate trovato ricco di sorprese e scoperte, qui abbiamo raccolto un sincero resoconto che non metterà d’accordo nessuno. [Mai come la classifica italiana, che quest’anno ha aperto le migliori diatribe sulla musica, ma niente spoiler]
30. Lower Dens – Escape From Evil
Quest’anno ad aprire le danze della prolifica annata del dream pop avevano iniziato la scorsa primavera i Lower Dens con Escape From Evil, prima che i Beach House buttassero fuori i due album che qualcuno han fatto sognare e altri raffreddare (ma ne parleremo dopo). Delle radici folk del gruppo di devendriana memoria c’è ancora qualche traccia sparsa nel disco, ma le atmosfere del terzo album della band di Baltimora sono diventate più rarefatte e soffici, tanto che il singolo To Die in L.A. diventa la perfetta sintesi di questo disco fresco, in cui la voce di Jana Hunter sembra decantare per accompagnarci in un viaggio che arriva fino agli anni Ottanta di Ondine. In un anno in cui le ricerche di sound non sono state le più originali possibili, il coraggio della svolta dei Lower Dens ci ha sicuramente intrigato. Li aspettiamo al prossimo giro di boa, per capire questo percorso dove andrà a finire.
29. Death Cab For Cutie – Kintsugi
Kintsugi è davvero il miglior lavoro di Ben Gibbard e soci? E soprattutto viviamo ancora nell’epoca dello scansonato indie-rock-pop declinato dai Death Cab For Cutie? Se pezzi come The Ghosts Of Beverly Drive confermano come i DCFC siano ancora vivi e prolifici nel vecchio manierismo da chitarrina svagata, il disco della band di Bellingham che si rese famosa grazie a Transatlanticism, è un ritorno alle vecchie corde. Non è più la stagione fertile dell’indie rock, come furono gli anni ’00, anche se quest’anno son tornati in pista a provarci pure i Franz Ferdinand nel loro progetto parallelo assieme agli Sparks, FFS. Kintsugi tutto sommato è uno di quei dischi dai toni nostalgici, ce ne faremo una ragione e lo rimetteremo in cuffia per assaporare nostalgici quel brivido indie rock.
28. Jenny Hval – Apocalypse, Girl
Anno importante per le ragazze che suonano questo 2015. Stavolta la cantautrice norvegese, classe 1980, va in là con le sue sperimentazioni e ci regala un bel disco, che ruota intorno a un pezzo coraggioso come That Battle Is Over. L’apocalisse promessa da Jenny Hval è sicuramente un regno sonoro e sperimentale, la sua voce ci accompagna quasi recitando e cinguettando assieme sopra la musica, sfinendo e urlando, passando di pezzo in pezzo come una camaleontessa del sound, curato dal produttore Lasse Marhaug. Apocalypse, Girl non si può certo considerare un lavoro facile o un easy-listening, per tutto il disco Jenny sembra voler provocarci, e noi accogliamo la sua provocazione perché la ragazza è brava, e le ragazze che suonano in questo 2015 hanno voluto lasciare un segno. Se poi Pj Harvey si fa attendere a uscire, è tutto più facile.
27. Chelsea Wolfe – Abyss
Cosa aspettarsi da un personaggio come Chelsea Wolfe se non un album gotico e decadente? Il titolo parla da solo: Abyss è una lenta discesa negli inferi dalle atmosfere dark, con degli sprazzi di metal che affondano direttamente nelle radici della Wolfe. Stravaganza, rumore, coltelli fendenti, voce infernale e soffusa ci accompagnano in questo nuovo album rumoroso della Wolfe, che vien fuori direttamente dal sole della California come per contrasto. Sicuramente un disco originale, in cui drone e doom si alternano in un modo innovativo di fare folk. Provare ad ascoltare per credere sarà il primo passo per ricredersi. Certo, il rischio delle P.J.-wannabe in cerca di un’identità più netta è sempre dietro l’angolo, ma è davvero difficile allontanarsi troppo da chi ha sperimentato praticamente tutto.
26. The Soft Moon – Deeper
Se per musica fusion intendiamo un mescolamento di jazz, rock e funk, andando verso quella world music di cui è stato capostipite David Byrne e i suoi Talking Heads, in questo nuovo album dei Soft Moon possiamo percepire un brivido di alt-fusion, una fusione di suoni della musica alternativa per la modernità, il sottofondo che coniuga il misterioso disagio della new wave con la buona novella dell’elettronica. Stiamo esagerando? Chi lo sa, quando è uscito fuori questo Deeper ci è parso una piccola perla da ascoltare e riascoltare (che sia sacrosanto riascoltare e non limitarsi ad ascoltare). Il racconto di un’epopea che mischia il romanticismo a una certa malinconia di vivere, con atmosfere electro-wave postpunk che viene fuori da questo disco è una bella novella per un 2015 che un po’ di questi sound li ha perduti. E allora grazie Soft Moon!
25. Neon Indian – VEGA INTL. Night School
Dopo quasi quattro anni da Era Extraña, i Neon Indian sono tornati con un nuovo album dal titolo che sembra vagamente uno scioglilingua, VEGA INTL. Night School, terzo frammento del mosaico musicale realizzato da Alan Palomo. Gli iridescenti e post-moderni anni ’80 sono al centro del viaggio notturno dei Neon Indian, che passano con naturalezza dall’italodance all’elettrofunk fino ad arrivare a suoni più glam e ricercati. Alcuni sono pezzi catchy come Annie o Dear Skorpio Magazine, mentre altri brani si vestono di sonorità potenti e policrome, capaci di scuotere e colpire come la tribale e spietata Slumlord’s Re-lease o la rarefatta Techno Clique. Date a Palomo ciò che è di Palomo.
24. Sleater-Kinney – No Cities To Love
Ritornare dopo 10 anni è difficile, ma le Sleater-Kinney ci hanno davvero sorpreso con questo disco compatto, forte e dal sapore di un dolce rincasare. Sembra di ritornare in piena atmosfera new wave, con un riecheggiarsi di Marquee Moon e Patti Smith che vocalizza con Tom Verlaine. La cosa paradossale di questo album è come sia uscito sulle scene a inizio anno e rimasto nell’aria fino alla fine, riportando in auge una band che sembrava scomparsa dalla memoria. Negli ultimi anni va molto di moda il fattore reunion e il ritorno sulle scene improvvise, le Sleater-Kinney hanno saputo approfittare di questa congiuntura e del ritorno di una certa passione nell’aria per certi sound (che in realtà non se ne sono mai davvero andati). No Cities To Love narra quest’inquietudine tutta rrriot.
23. Tobias Jesso Jr. – Goon
Ma che classe immensa questo ragazzo canadese con straordinario talento melodico. Tobias Jesso Jr. riesce a scavarci letteralmente dall’interno, con questo debut album che ci riporta indietro fino ai Beatles, provare al volo Without You per credere. L’anno dei grandi cantautori al pianoforte, come Pitchfork ha definito questo 2015, vede Goon come un dolce ritorno a casa, carezze che sembravano perdute nella memoria. Questo capellone ci conquista immediatamente, e gli perdoniamo pure di aver collaborato con Adele dopo una perla di sincerità come questa. Pezzi incantevoli che si alternano l’uno dopo l’altro, come un vecchio vinile che viene fuori da tempi andati. Il chitarrista ha scoperto il pianoforte, e gliene siamo grati. Ne approfittiamo per una menzione speciale anche a Benjamin Clementine, altro sopraffino cantautore che ha tirato fuori splendide canzoni a cavallo tra 2014 e 2015.
22. Panda Bear – Panda Bear Meets the Grim Reaper
La mente degli Animal Collective torna dopo una pausa di quattro anni per parlarci del suo incontro col triste mietitore. La morte, e la paura che essa provoca, sono infatti un tema fondamentale dell’ultimo lavoro di Noah Lennox, in cui il taglio psych-pop è fresco e brillante come sempre. Panda Bear insomma resta la solita certezza. In The Grim Reaper si respira un’aria di continuità col predecessore Tomboy, forse anche grazie alla sapiente mano di Pete Kember, presente nel missaggio di entrambi i dischi. Recentemente Lennox ha rilasciato anche un mix di cose che aveva composto durante la registrazione di Grim Reaper, e che non avevano trovato spazio. Trovate tutto qui sotto, poi torniamo a gustarci il disco.
21. The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die – Harmlessness
Non si può certo dire che di questa band non rimanga impressa la lunghezza del nome, e l’acronimo TWIABP non aiuta a fissare nella memoria un nome che va imparato a memoria e strascicato come una cantilena. Pensavate avessimo dimenticato l’emo in questa lunga scalata al racconto del 2015? Niente paura, quest’anno siamo piuttosto versatili, e Harmlessness rientra in questa faticosa classifica. La copertina del disco resterà impressa, qualcuno con la maschera di una tigre insegue una pin up modello Marilyn Monroe tra i boschi. Esperienza che non capita tutti i giorni nella vita, così come quella di imbattersi dentro un disco emo che tocca le corde.
20. Grimes – Art Angels
Non avremo incoronato Grimes la reginetta del 2015 come tanti altri, ma di sicuro le consegniamo un premio virtuale per la copertina più tremenda dell’anno (di certo resterà impressa a futura memoria). Questa donna si è fatta attendere con un’operazione di marketing degna di un Thom Yorke sotto psicofarmaci, e sul finire dell’anno si è presentata con il grande botto. Dopo aver buttato via un disco, come ci ha sogghignato lei a cui faremo finta di credere (tanto non abbiamo granché da perdere), Claire Boucher si è decisa a pubblicare Art Angels, che cose interessanti ne ha nella sua mescolanza da cui viene fuori un art-pop da presa facile. La ragazza fa parlare di sé a prescindere, e così c’è chi la amerà e chi la detesterà, senza mezze misure. Genio del pop o grande bluff?
19. Viet Cong – Viet Cong
Il debut album dei canadesi Viet Cong è un nervo scoperto, un’emozione sepolta svariati chilometri sotto terra. È un lavoro che ti arriva dritto allo stomaco ma dietro tutta questa freddezza, in fondo a questo groviglio post-punk, c’è una piccola sfumatura di sentimento e non appena lo si scopre si ha la sensazione che gli agguati dei Viet Cong abbiamo un retrogusto romantico e decadente. Uscito lo scorso gennaio, ci ha riscaldato immediatamente per tutto il corso del 2015, con i lucidi lampi di pezzi come Continental Shelf e Silhouettes, mettendoci diritti a confronto con la bellezza a muso duro di certi progetti. Probabilmente non il disco più originale del 2015, ma una ventata di freschezza che è sembrata vitale come non mai. Fa niente se a qualcuno è saltato in mente che il loro nome potesse essere offensivo per certe comunità vietnamite americane, a noi piace ricordali così i Viet Cong.
18. Sleaford Mods – Key Markets
Nella musica degli Sleaford Mods, così unica e originale, si nascondono velature di post punk ed elementi cari alla cultura rave, al minimalismo elettronico, all’hardcore e ovviamente anche all’hip-hop. Un mix letale che con questo Key Markets conferma l’attitudine rabbiosa accompagnata dalla solita ironia che risulta ancora più scura e urticante. L’ottavo disco del duo di Nottingham, arriva dopo l’anno della consacrazione, in cui la notorietà di Jason Williamson e Andrew Fearn, grazie al precedente lavoro Divide and Exit, ha raggiunto vette inaspettate. L’uso di un linguaggio sempre più preciso, inferocito ed essenziale, permette al duo di risultare sempre più aspramente satirico e credibile, scatenando rabbia e ironia verso tutto e tutti. Lasciatevi trascinare dal mix letale degli Sleaford Mods.
17. Oneohtrix Point Never – Garden Of Delete
E non potevamo escludere l’ultimo lavoro di Daniel Lopatin, Garden Of Delete, dagli album che ci hanno fatto emozionare quest’anno. Gli scorsi anni sono stati fiorenti per la musica elettronica, uscite come quelle di Aphex Twin, Caribou, Jon Hopkins, Ben Frost, avevano avuto il merito di cullarci animatamente in uno spietato torpore. Il 2015 a confronto sembra esser stato meno creativo e corposo, con alcune eccezioni come – per esempio – i tre movimenti di Silhouettes da Elaenia di Floating Points, il bel disco di Larry Gus, I Need New Eyes, e questo spigoloso nuovo lavoro di Oneohtrix Point Never, che emerge per originalità nel panorama elettronico. Lo scompattamento dei suoni di cui si fa portavoce Lopatin restituisce un po’ di novità a un anno tutto sommato sottotono per un genere che è una prateria sterminata o un far west ancora da conquistare e indagare.
16. Kendrick Lamar – To Pimp A Butterfly
Ed ecco uno dei dischi che ha acceso più discussioni non solo a livello globale ma anche nello steccato della nostra redazione, l’acclamato nuovo lavoro di Kendrick Lamar, To Pimp A Butterfly. Citando le ragioni di chi lo voleva più su in classifica, un disco che a distanza di mesi sta ancora facendo parlare, che ha dato una scossa unica al mondo dell’Hip Hop, che ha un peso enorme anche per i testi oltre che per i musicisti che coinvolge, che raccoglie contaminazioni soul, funk e jazz; c’è addirittura chi ha tirato in ballo John Coltrane. Ma le classifiche di fine stagione emergono da calcoli matematici e astrologici che poco hanno a che vedere con la carne viva della realtà, e così la scalata al podio di Lamar si è fermata qui.
15. Joanna Newsom – Divers
Non facciamo finta di non vedere la realtà, Joanna Newsom è una delle compositrici migliori dei nostri tempi. Arpista meravigliosa, multistrumentista raffinata e di classe, Divers non fa altro che confermare la sterminata creatività di una delle voci più belle del panorama internazionale. Tenetevi Grimes, tenetevi Adele, e lasciateci la voce di Joanna, quella che ci fa battere forte il cuore fino a correr via lontano, far capriole sui prati, e canticchiare melodie che sembrano venire da altri mondi ricchi di elfi, gnomi e belle ragazze. In una sola parola adorabile, anche quando sa di essere irritante. Ma non è così che capita alle volte? Il lungo viaggio alla scoperta di sonorità magiche che ci propone anche stavolta Joanna Newsom ci guida in atmosfere trasognate, che raramente toccheremo sulla terraferma.
14. Unknown Mortal Orchestra – Multi-Love
Multi-Love è un avventura sanguigna nei meandri di una discoteca utopica, segnata da lastre di funk. Infatti accanto ad alcuni barocchi beat anni 60 è evidente un omaggio a Frank Zappa, ascoltando alcune canzoni invece si ritrovano notevoli influenze di Giorgio Moroder, per concludersi con atmosfere funk. È difficile credere che siano passati già cinque anni da quando Ruban Nielson, genio e mente degli Unknown Mortal Orchestra, iniziò, misteriosamente, a pubblicare la sua musica su Bandcamp. Negli anni successivi, gli UMO hanno pubblicato due sorprenderti album intrisi di un caleidoscòpico psych rock che ha entusiasmato non solo i critici, ma anche un’ampia gamma di fan rimasti sbalorditi dal loro stile vintage e psichedelico. Per il loro terzo album, la band ha deciso di ribaltare il proprio mondo rendendo il disco schizofrenico e polivalente.
13. John Grant – Grey Tickles, Black Pressure
Che John Grant sia una delle figure più tormentate nel panorama musicale alternativo degli ultimi anni è cosa nota. Per la produzione di Grey Tickles, Black Pressure il nostro si è affidato ad una mano sicura come quella di John Cogleton (Modest Mouse, Franz Ferdinand, St Vincent, Anna Calvi) affiancandosi con importanti collaborazioni che evocano fin da subito il taglio dell’album: Tracey Thorn (Everything but the Girl), Amanda Palmer (Dresden Dolls), Andy Butler (Hercules & Love Affair). Fin dal primo ascolto appare evidente come l’anima pop-elettro sia quella che a questo giro fa da padrona. Sembra chiaro il tentativo di riproporre l’alchimia di Pale Green Ghost, il tutto però alleggerendo notevolmente gli animi spostando il metronomo su sonorità più easy listening. Resta comunque immenso il nostro John.
12. Low – Ones And Sixes
Alcuni anni sembrano delle fotocopie di anni precedenti. Nel 2013 i Low buttarono fuori un disco sopraffino come The Invisible Way, e sempre quell’anno usciva Pale Green Ghost di John Grant e Monomania dei Deerhunter. A distanza di due anni Low, Grant e Deerhunter sono tornati con i nuovi dischi, e ci siamo trovati a dover fare i conti con quelli che erano lavori troppo vicini nel tempo (e che ci erano anche piaciuti molto, per ragioni differenti). One and Sixes è un disco dei Low, ovvero una certezza firmata dalla band che fece uscire un capolavoro di slow-core già agli esordi di I Could Live in Hope. Che dire di pezzi come No Comprende, che fendono diritti al punto esatto delle orecchie, narrando l’evoluzione di un sound che si fa più affinato. I Low restano gli incantevoli sussurratori degli inizi, sanno far male e sanno cullarci, sanno dirci parole e togliercele. Killing me softly with Low.
11. Courtney Barnett – Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit
Questa ragazza è una delle sorprese più fresche e prorompenti dell’anno. Eravamo un po’ orfani delle ragazze con la chitarra, e l’irruzione di Courtney Barnett sulla scena ci ha un po’ fatto ricordare una nostra vecchia conoscenza, Cat Power (trattiamo il paragone con le dovute precauzioni). È come uno di quei deja-vu da strada, in cui stai fissando il vuoto e ti ritrovi con un impatto da fermo: qualche volta ti siedi soltanto e altre volte ti siedi a pensare. Sentiamo la mancanza di sound duri in questo 2015, ma questa ragazza qualcosa è riuscita a scavare, soprattutto con pezzi come Pedestrian At Best. La voce in questo caso non culla, ma decanta con un’attitudine punk da guerriera. E allora grazie Courtney per esserti seduta con noi a canticchiare. Tutto il resto è allucinazione.
10. Blur – The Magic Whip
Lo scorso anno, con un’opera di mediazione machiavellica, al primo posto di questa classifica ci era finito Damon Albarn, che tutti conoscono meglio come leader dei Blur piuttosto che solista. Un po’ delle aperture sonore indicate nell’album solista di Albarn le ritroviamo anche in The Magic Whip (My Terracotta Heart), il ritorno dei Blur alle pubblicazioni dopo una pausa, una reunion e un emozionante tour. Se The Magic Whip dovesse essere l’ultimo capitolo dell’epopea Blur, sicuramente sarebbe un modo migliore per finire le cose, rispetto a quelli che furono i saluti dopo Think Tank. La chiusura è affidata a Mirrorball, canzone legata in particolar modo alla tradizione cinese soprattutto nelle vocalità. Il brano inoltre si ricollega alla copertina del disco, straniante e malinconica, che chiude il cerchio dell’album. Quest’anno le cineserie son di moda.
9. Kamasi Washington – The Epic
Forse lo riconoscerete anche come il sassofonista di To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, ma certamente Kamasi Washington ha dettato il ritmo all’anno soprattutto con questo disco di straordinaria bellezza, The Epic. Lungo (album triplo), complesso, affascinante, un viaggio alle radici della musica jazz, questo The Epic non può assolutamente lasciare indifferenti. Kamasi riporta in auge uno strumento come il sassofono, e lo fa suonare come un vecchio gigante del jazz, tanto che gli echi di John Coltrane attraversano come un brivido tutto il disco. Il ritmo è quello giusto, e ci piace immergerci in questa uscita che appare come una delle più magiche del 2015, pur essendo ricca di citazioni. Disco d’atmosfera, ricchissimo.
8. Julia Holter – Have You in My Wilderness
E lasciamoci trascinare da Julia Holter, e dalle sue visioni di pop sperimentale che sboccano nel nuovo lavoro Have You in My Wilderness. Anche in questo caso l’approccio potrebbe non essere dei più semplici (a confermare di come questo sia stato un anno di approcci complicati), ma calarsi dentro il mondo disegnato e musicato dalla Holter in questo nuovo lavoro è entrare in atmosfere fantastiche e sognanti, come accade in Feel You, singolo di tragica bellezza. La personalità di Julia Holter, che si intravede già nello scatto di copertina, esce fuori in questo disco in tutta la sua forza, e al quarto album della compositrice americana ne usciamo fuori pieni di stimoli, quasi attoniti nella contemplazione.
7. Deerhunter – Fading Frontier
Se anche stavolta non hanno fatto uscire il disco della vita, i Deerhunter sono sicuramente gli autori di una delle copertine da album più belle della stagione, che ricorda vagamente alcuni quadri di Magritte. Non li abbiamo premiati per questo comunque, il gruppo di Bradford Cox resta sempre una spanna sopra gli altri, e Fading Frontier rimane intarsiato nel suono di una delle band che riescono meglio a raccontare l’epoca in cui viviamo. Lo stesso Cox ha dichiarato come il suono dell’opera gli ricordi “il primo giorno di primavera”, gli ostacoli si smaterializzano, come suggerisce il titolo dell’album, così come il sound della band che si apre a composizioni ultramelodiche, da pace dei sensi. Nel brano Breaker i Deerhunter sembrano inscenare la propria beatificazione. Tutto il resto è la loro eterna, contorta, meravigliosa monomania a cui non possiamo smettere di volere bene.
6. Beach House – Thank You Lucky Stars
Diciamoci la verità, i Beach House sono stati osé quest’anno, mettendoci alla prova con due album nel giro di pochissimo tempo. Depression Cherry era sembrato un pochetto sottotono per le altezze a cui ci aveva abituato il duo di Baltimora, e quando è uscito a sorpresa il secondo Thank You Lucky Stars siamo rimasti un po’ spiazzati, anche per le ricerche di sound che sembravano uscir fuori da questo Lucky Stars, pur rimanendo adagiato sulla soglia del trasognato dream pop in stile Beach House (ormai un marchio di fabbrica). Elegy To The Void è una lunga cavalcata shoegaze che sfocia quasi nelle cavalcate della musica classica, e probabilmente è la sintesi di questa delicatezza in cui provano a cullarci i Beach House in questo 2015. Sempre notturni, intarsiati in magici chiaroscuri, per un po’ siamo rimasti a scegliere quale fosse l’album da premiare quest’anno, poi non abbiamo avuto dubbi. Ma siamo davvero ai livelli di Bloom?
5. Jamie XX – In Colour
Questa consacrazione era un po’ chiamata, questo è l’anno di In Colour di Jamie XX, del resto conosciamo abbastanza il repertorio targato XX da non restare sorpresi. Basta ascoltare la portenza di un singolo come Gosh, che apre il disco disturbando l’udito fino a far ammettere che Jamie Smith è un gran talento della produzione elettronica. Il disco è stata una delle irruzioni più belle nel panorama del 2015, e ci ha trascinato al ritmo delle produzioni di Jamie, con pezzi come Loud Places che sono riusciti ad accompagnarci per l’intero anno. L’attitudine danzereccia del lavoro lo rende probabilmente uno dei lavori più originali nel suo genere quest’anno, inoltre le collaborazioni importantissime che sono sparse nel disco fanno alzare ancora il livello. Cosa dire di più di In Colour? Correte a metterlo e lasciatevene trascinare.
4. Kurt Vile – b’lieve i’m goin down
Un instant classic. 40 anni di folk, americana e heartland rock statunitensi imbevuti di acido lisergico. Questo il nuovo album di Kurt Vile in breve, se poi vogliamo affinare le definizioni siamo davanti a uno dei migliori lavori dell’anno. Avevamo lasciato l’ex War On Drugs alle prese con la sua personale ricerca di sound in Smoke Ring for My Halo e Wakin on a Pretty Daze, due dischi che mostravano già il talento cristallino del capellone con la chitarra. Ma con b’lieve i’m goin down abbiamo avuto davanti la sensazione di una consacrazione definitiva di Kurt Vile, e di una ricerca di suono che ha trovato la sua direzione più precisa, tant’è che ne sono dimostrazione pezzi ruggenti come Pretty Pimpin’ (uno dei migliori singoli dell’anno), e lunghe odissee sonore come Wheelhouse. Non lasciatevi soprassedere dalla difficoltà, mettete subito questo disco in cuffia.
3. Tame Impala – Currents
Avevamo lasciato i Tame Impala a maturare la freschezza del loro psych-rock anni Settanta, e li ritroviamo più maturi nel suono con Currents. Il disco è una svolta Pop/R’n’B che sa conservare intatto il fascino di uno stile unico e collaudato, che sa osare senza posare. Ce ne accorgiamo già dal singolo Let It Happen, che conserva lo stile Tame Impala declinando il tutto nell’incontro con questa piccola svolta della band in cui la melodia cede il passo alla ritmica. Eventually ci restituisce la dimensione reale di quello che sarà l’album; oltre ad essere la traccia più complessa, è un compendio nostalgico degli stili calcati negli ultimi anni. Con Currents abbiamo qualche flanger in meno, un po’ di pulizia in più. La saturazione cede il passo a un suono che si schiude definitivamente e che acquisisce corpo al di là dei manierismi. Li abbiamo voluti premiare.
2. Sufjan Stevens – Carrie & Lowell
A questo punto la sfida per il podio si è riscaldata tanto, e il visionario ritorno di Sufjan Stevens con un disco così intimo non poteva mancare. Carrie & Lowell è un viaggio verso i territori dimenticati dell’infanzia, una dedica accorata a Carrie, la madre alcolizzata e schizofrenica di Sufjan che lo ha abbandonato all’età di un anno e che si è ricostruita una vita con Lowell, anch’egli alcolista, ma che ad oggi è il manager di Ashmatic Kitty, l’etichetta di Stevens. Ma è la musica la vera protagonista del disco, in un continuo susseguirsi di immagini che fanno di questo concept una perla di rara bellezza che risveglia sussulti ed emozioni (sapete di cosa parliamo quando parliamo di pelle d’oca). Basterebbe ascoltare I Should Have Known Better o No Shade in The Shadow of the Cross per restare incantati, ma è l’intero disco a devastare intimamente, farci perdere le coordinate per poi riconquistarle con una pienezza ubriaca interiore. Ti sconvolge e ti poggia qualcosa dentro. Immancabile.
1. Father John Misty – I love You, Honeybear
Dagli esordi coi Fleet Floxes fino alla nascita di quell’aka Father John Misty che esordisce al pubblico con Fear Fun, Tillman ci racconta e scava dentro l’America. Stavolta il delitto sembra essere perfetto. I Love You, Honeybear è un disco corposo, che a tratti riesce a essere persino elettronico come in True Affection, per poi passare alla chitarra più scarna di I Went To The Store One Day. Ci prende in giro e ci culla Josh Tillman, regalandoci canzoni profonde e piccole chicche. Consegnandoci la sua storia che è la storia di tutti quelli che hanno a che fare con questo secolo ingordo. Riscoprendo la verità dentro i sorrisi più banali, e invitandoci a credere che la crisi in fondo è solo una vecchia nenia da cui si esce fuori con la poesia. Una colonna sonora del quotidiano nel mezzo del caos, intrisa di ironia sociale, come la splendida Bored in the Usa in cui l’invocazione ”Save me Presidente Jesus” sembra l’ultimo spietato rifugio. In un mondo che fa di arroganza e baciapile il suo marchio distintivo, Tillman ci dimostra la loro assoluta mancanza di stile, da combattere con auto-ironia e satira. Immenso.