Una breve panoramica sui dischi usciti nel 2019. Nella nostra proposta di 20 dischi troverete qualcosa da recuperare o riascoltare, da amare o odiare a seconda dei vostri gusti e umori. Tenete le orecchie aperte e buon ascolto.
20. SUNN O))) – LIFE METAL
Southern Lord Records
Quest’anno il drone metal dei Sunn O))) ci ha regalato ben due uscite, Life Metal e Pyroclasts, due lavori che annoverano entrambi una figura mitologica come Steve Albini tra i produttori. Life Metal è un viaggio di distorsioni sonore che fanno bene all’anima. Provare a perdersi nel disco per credere.
19. CHRISTIAN LÖFFLER – GRAAL (PROLOGUE)
Ki Records
Christian Löffler riesce, con un esperimento sui generis, a trasmettere una sensazione insolita: una specie di empatia musicale che lavori più raffinati e più levigati smarriscono, nel nome di una produzione ipercontrollata e sempre più studiata a tavolino. Graal è il disco da mettere su per ogni occasione. (Recensione)
18. SLOWTHAI – NOTHING GREAT ABOUT BRITAIN
Method
Nothing Great About Britain è il titolo che ha scelto Tyron Kaymone Frampton per il suo album d’esordio. 32 minuti violenti, politici, pieni di rabbia e disgusto. È un disco che esplode nelle orecchie e nel cervello per quanto è diretto. Slowthai ha la lingua avvelenata e sputa su tutti e tutto, raccontando la sua quotidianità nel marcio della Londra più autentica. Affascinato dal grime lo ha preso e reso ancora più brutale: insieme a lui il giovane Mura Masa, Skepta (immortale) e gli Slaves, tutti artisti che hanno decisamente un buon rapporto con la critica sociale e anche in questa occasione non si sono tirati indietro. [Spoiler: il disco finisce con una minaccia a Kate Middelton]
17. WEYES BLOOD – TITANIC RISING
Sub Pop
Al quarto album della sua carriera la trentenne Natalie Mering raggiunge una perfezione formale che profuma del mare californiano e di antichi sapori sixties. Figlia nella vocalità, come nell’attitudine colta-pop, di Aimee Mann come dei lavori di Father John Misty con il quale ha condiviso il palco, Weyes Blood realizza, con Titanic Rising, il disco della maturità. Prodotto da Jonathan Rado dei Foxygen, Titanic Rising è un autentico instant classic dal respiro lungo capace di tenere insieme un languore da femme fatale con una naturalissima freschezza pop. Colonna sonora perfetta di uno state of mind, di un mondo solo immaginato, di un’America sospesa nel tempo che si lascia però attraversare da tutte le possibili inquietudini contemporanee.
16. FKA TWIGS – MAGDALENE
Young Turks
FKA Twigs è una donna con le sue fragilità, i suoi punti di forza, i suoi tunnel oscuri, le sue vie d’uscita comuni a tutti quanti noi, indipendentemente da ogni status e orientamento. L’ultimo album, Magdalene, è una sorta di inno all’arte come antidoto al dolore. (Recensione)
15. FOALS – EVERYTHING NOT SAVED WILL BE LOST PART
Warner Records
Everything Not Saved Will Be Lost è la prima parte di un doppio disco che racconta il mondo in cui viviamo attraverso i suoni che li hanno caratterizzati fino a oggi. Yannis Philippakis canta di catastrofi imminenti dovute all’innalzamento dei mari, del poco tempo che rimane, di allarmismi e cospirazioni, insomma di un mondo che sembra essere stato partorito da un brutto sogno. (Recensione)
14. DIIV – DECEIVER
Captured Tracks
Il ritorno di Zachary Cole Smith dopo tre anni passati a combattere le proprie dipendenze. Deceiver rappresenta una novità nel catalogo dei DIIV. Molto più lento e hard, l’album è prodotto da Sonny DiPerri, che ha lavorato con Trent Reznor, My Bloody Valentine e M83, fra gli altri. Questa influenza si percepisce in una maggiore attenzione alla profondità rispetto alla velocità. Troviamo così uno spostamento dagli anni ’80 al decennio successivo, ormai entrato a pieno titolo nel calderone della nostalgia. (Recensione)
13. ANGEL OLSEN – ALL MIRRORS
Jagjaguwar
Negli ultimi anni Angel Olsen ci ha regalato diverse prove del suo squisito talento. Ci eravamo innamorati di Burn Your Fire for No Witness e My Woman, e non potevamo non cadere in amore anche per questo nuovo album raffinato che conferma il talento compositivo di una delle grandi protagoniste dell’intero decennio sonoro. All Mirrors è un disco da gustare a ogni ora della giornata.
12. SHARON VAN ETTEN – REMIND ME TOMORROW
Jagjaguwar
Remind Me Tomorrow è un album che parla a donne, di donne ma non solo per donne: il ritmo, i suoni dark e l’intimità dei testi lo rendono troppo ricco e ambizioso per non essere apprezzato da chiunque. Sharon Van Etten si appresta a diventare, senza presunzioni ma solo un gran senso dell’umorismo, una delle cantautrici americane più vere del nostro (e del suo) tempo. (Recensione)
11. TYLER, THE CREATOR – IGOR
Columbia
Igor sconvolge le regole del rap e le riscrive. Non è un album classico, è qualcosa di nuovo e inaspettato. Non troverete molte “barre”, non troverete rime caustiche su beat. Le tracce che compongono l’ultimo lavoro di Tyler, The Creator sono per la maggior parte strumentali, con dei suoni che creano un’atmosfera e un ambiente più che parlare di una storia. Eppure quella storia ce la racconta lo stesso. La nascita e la fine di un amore passando per i momenti più turbolenti e i più felici. Uno dei più importanti esperimenti musicali sul tema del rap. (Recensione)
10. THE COMET IS COMING – TRUST IN THE LIFEFORCE OF THE DEEP MISTERY
Impulse!
Se il 2018 era stato già segnato dall’avantgarde jazz dei Sons of Kemet, il 2019 è ancora illuminato dalla stella psichedelica di un’altra delle molteplici creature cui ha dato vita Shabaka Hutchings, eclettico sassofonista nato a Londra e cresciuto tra Inghilterra e Barbados. Free-jazz, elettronica, funk, psichedelia, krautrock, musica dallo spazio: tutto questo anima il sophomore dei The Comet is Coming. Un album denso, ricco di sonorità, di idee, di suggestioni e atmosfere che risente come non mai dei tempi difficili in cui si muove l’Europa. Disco altamente politico senza bisogno di dichiarazioni e con un brano – Blood of the Past, insieme a Kate Tempest – tra i pezzi più affascinanti di quest’anno. Dai locali del South East London fino ai palchi dei mezzo mondo, una nuova strada per il jazz, mai così contaminato, mai così autentico.
9. APPARAT – LP5
Mute Records
Apparat torna alla sua essenza più vera. Rimessi a posto i synth bass della trilogia Moderat, Ring torna a un sound più umano, più artigianale e sentito con LP5. Il più grande merito dell’album sta probabilmente nel riuscire a essere una continuazione del discorso Berlin senza essere banale, senza rimanere incastrato in alcun immaginario inesistente. Un racconto vero che guarda al presente e al futuro. E Ring dimostra molto bene di sapere che il presente non è solo elettronica ma è anche soundtrack. La musica di Apparat nasce da un’atmosfera che è quella berlinese ma cambia prospettiva. Non più Berlino che parla ma lui che parla di Berlino. (Recensione)
8. THOM YORKE – ANIMA
XL Recordings
Thom Yorke continua con Anima quel processo di decostruzione (quasi Deriddiana) della musica. Non esiste struttura, non esiste fissità, non esiste regola. La regola è l’assenza di regole e l’innovazione si rivela logica conseguenza del suo modo di fare “anti-musica”. Un tentativo di retrocedere a uno stato pre-cosciente: Yorke dice apertamente che vi è una componente di aspirazione al sogno in Anima e che il titolo dell’album è nato dalla sua passione per Jung e la sua filosofia del sogno. Quello che Yorke cerca di fare in Anima è di dare un’armonia a un complesso di inconscio, paranoie, sogni, desideri, paure, archetipi, pulsioni che formano un maelström costante e irrisolvibile e che ci accompagna ogni volta che chiudiamo gli occhi. (Recensione)
Last I Heard (…He Was Circling The Drain)
7. BILL CALLAHAN – SHEPHERD IN A SHEEPSKIN VEST
Drag City
Bill Callahan è rimasto sempre fedele alla sua vena compositiva. È sempre riuscito a spezzarci le ossa con il suo marchio d’autore. “I sing for good listeners, and tired dancers”, ha detto a proposito del nuovo album Shepherd in a Sheepskin Vest. A più di cinquant’anni Bill Callahan è riuscito a consegnarci un disco in cui tocca le vette di un intimismo fuori dal tempo: in perfetta controtendenza a-qualsiasi-cosa veniamo catapultati nella pura melodia, a tratti dentro un alt-folk cupo (che facilmente potremmo immaginare ambientato in un vecchio ranch), per altri versi in un’annichilente ballata di Nick Drake. Callahan ha ripreso in mano la chitarra e ha tirato fuori ancora una volta tutto il suo magnifico minimalismo. (Recensione)
6. THE NATIONAL – I AM EASY TO FIND
4AD
L’ottavo album dei National è un disco che va ascoltato più volte: probabilmente ci vorrebbe uno speciale decanter di suoni per lasciarlo stare un po’ all’aria aperta, farlo respirare e ri-apprezzarlo ancora. Un disco dalle corde intime che tocca strati emozionali a più dimensioni. Il contraltare di voci femminili che accompagnano Berninger si incastra perfettamente nel suo percorso di indagine: la co-presenza di voci, e i testi verticali, creano un dialogo sonorizzato per tutto il corso del disco. Non un disco da inni rock ma una vera e propria piccola opera confessionale. (Recensione)
5. FONTAINES D.C. – DOGREL
Partisan Records
Lo sguardo sognante di Keates e il fervore riottoso degli Idles. L’analisi vigile di Joyce mischiata al disgusto infetto degli Shame. Il sarcasmo acido dei Fall che scivola su un romanticismo punk per organi caldi nonostante la bruma. I Fontaines D.C. mostrano al debutto una qualità di scrittura che altre band impiegano anni a raffinare. O che mai riescono a raggiungere. Drogel è la chiara, inaspettata e schietta immagine di una promessa già mantenuta. Una delizia anche solo stare imbambolati a guardarla.
4. BIG THIEF – U.F.O.F.
4AD
È un bel momento per i Big Thief: quest’anno la band ci ha regalato due album incredibilmente belli, U.F.O.F. e Two Hands. Due dischi gemelli che sono un affondo all’anima, dove la voce di Adrianne Lenker è soffice, decisa e dolce come quella di un’antica ed eterea eroina alt-folk. U.F.O.F. è arrivato tra noi come un oggetto misterioso e si è imposto come una delle migliori uscite dell’anno. Siamo davvero di fronte a quell’incontro con oggetti inconoscibili e forze estranee che evoca il titolo del nuovo album della band di Brooklyn: il rapimento si compie, e si condensa nei suoni del disco. L’effetto è quello di un sequestro. Lasciatevi rapire dai Big Thief. (Recensione)
3. NICK CAVE & THE BAD SEEDS – GHOSTEEN
Ghosteen Ltd
Ghosteen è tormentato e byroniano, un’opera devastante che sembra emersa dalla brughiera: come un Manfred lacerato o il protagonista di un romanzo di spettri, Nick Cave canta il dolore e l’abisso di un uomo che evoca forze oscure, le richiama intorno a sé, agita fantasmi, divinità e l’umanità tutta. Ghosteen è un poema umano e un’invocazione al cielo: come una forza della natura, Cave è devastante nel riuscire a prendere la sua vita e la sua esperienza al singolare (la scomparsa del figlio Arthur) per renderla universale, cantarla per l’intera umanità. Un’opera d’arte e tormento in cui immergersi, che ci concede il lusso della trasgressione alla realtà. (Recensione)
2. JAMES BLAKE – ASSUME FORM
Polydor Records
Con i suoi quarantotto minuti, Assume Form rappresenta in maniera inequivocabile un punto di svolta nella carriera del ragazzo inglese, la fotografia varia e composita di un uomo – prima ancora del musicista – che viene a contatto con se stesso e con i propri demoni, che cerca (e trova) una sintesi e un equilibrio nella propria vita come nelle tante direzioni nelle quali il suo talento in questi anni ha saputo trovare sempre eccellente espressione. Trap, hip hop, soul, new flamenco, un universo di glitch, beat elettronici sono i colori con cui Blake dipinge un quadro ricco che colpisce fin dal primo ascolto per la profondità della ricerca. Assume form è il disco che segna una svolta di libertà nel percorso umano e artistico di Blake. (Recensione)
1. BON IVER – i, i
Jagjaguwar
i, i è l’autunno sonoro dei Bon Iver, la chiusura del cerchio delle quattro stagioni che in questi anni ci ha cantato Vernon. E ancora una volta il talento di Justin è letale a guidarci verso un’odissea sonora e di atmosfera. Ci perdiamo tra i vocals di Jenn Wasner e Moses Sumney, ritroviamo ospiti come James Blake e Aaron Dessner, mentre frammento su frammento si costruiscono le tracce che compongono il disco. Per un attimo i Bon Iver ci sospendono in un mondo dove abbiamo il potere di stare bene. Miracoli della musica. Benvenuti nell’autunno dei Bon Iver: maestoso, ispirato. Un album che si è conficcato sottopelle quest’anno, e non se ne andrà. (Recensione)