Come credo molti, ho conosciuto Vincenzo Latronico leggendo Le perfezioni, romanzo-fotografia di una generazione di expat italiani di base prevalentemente a Berlino. Uscito per Bompiani nel 2022, il libro è finito nei dodici finalisti Strega di quell’anno. Già allora mi aveva colpito notare un sorpendente iato, di nove anni, nella produzione letteraria di questo autore raffinato e di grande intelligenza, sulla quarantina: un vuoto che lascia trasparire qualcosa in più che una ostinata volontà di preferire la qualità alla quantità. La mentalità dell’alveare, l’ultimo libro pubblicato da Latronico in precedenza, sempre per Bompiani, risale infatti al 2013. Dieci anni dopo, La chiave di Berlino ha seguito a stretto giro Le perfezioni. Una prima spiegazione dietro questi anni di vuoto ci è data quando in quest’ultimo volume scopriamo che praticamente coincidono con la partenza dell’autore da Berlino a ridosso della pubblicazione del libro precedente e con il suo ritorno in città nel periodo postpandemico, che risulta subito dopo nel volume successivo: il silenzio di Latronico è coinciso con la distanza da Berlino. Nessun autore italiano, probabilmente nessun autore in generale, ha legato così profondamente la sua scrittura alla città. Perciò ritengo che per molti versi Le perfezioni e La chiave di Berlino siano due libri che vanno letti insieme, ricollegandone luoghi, situazioni, descrizioni e riflessioni che si richiamano, nel primo avvolgendosi intorno al tentativo di trasformare il contenuto autobiografico e saggistico del secondo in materia narrativa. E mi sento anche di dichiarare che La chiave di Berlino sia il più efficace e riuscito tentativo di contenere con le parole questa città, a cui anche io mi sono profondamente legato.
Dietro il titolo allusivo ma di comprensione non immediata, di cui apprendiamo il significato solo nelle ultime pagine, La chiave di Berlino è un saggio-autobiografia, in inglese potremmo definirlo un personal essay, che dischiude una delle più intense, personali e non banali descrizioni di una città così complessa da parte di una persona che l’ha amata profondamente due volte. Nel volume, percorrendo vari posti della città insieme alle descrizioni che ne hanno fornito autori molto diversi, attingendo a Walter Benjamin e Christoper Isherwood, come ad Anne-Laure Jaeglè e Kirsty Bell, Latronico descrive la città in cui ha vissuto negli anni della Berlino “povera e sexy”, tra il 2009 e il 2014, e quella in cui è tornato dopo il 2020, talvolta in modi così accurati e contrastanti che si può pensare stia parlando di due luoghi diversi sovrapposti nella superficie, ma in realtà profondamente divergenti: “La città che ho scelto non esiste più, se mai è esistita; volente o meno, vivrò in quella che mi è capitata” (126). Chiunque abbia vissuto a Berlino sa che questo è l’unico modo per avvicinarsi a questa città così unica: cercando di abbracciare le sue moltitudini. Per una di quelle coindicenze che sembrano scritte dal destino, ho letto il libro proprio a Berlino. Uscito nell’autunno del 2023, l’ho avvistato mentre ero tornato in città per alcune settimane dopo una lunga lontananza, come è successo all’autore, e ho deciso di prenderlo quando vi sono tornato per alcune ulteriori settimane, poco dopo. Come Latronico, anche io sono stato rapidamente riconquistato dalla capitale tedesca, nonostante le sue trasformazioni, e ho avuto desiderio di comprenderle meglio. Anche io ho cominciato a chiedermi se non sarebbe una buona idea tornare a vivervi. Bastano pochi attimi per farsi stregare da Berlino.
Ma una coincidenza ancora più spassosa è quella che mi ha spinto a recensire il libro: la discussione che ho avuto in proposito, in metropolitana, quando mi sono trovato di fronte un ragazzo abbastanza più giovane di me che aveva il medesimo libro in mano. Berlino è da sempre una città che si presta a incontri inattesi, ma il fatto che La chiave di Berlino possa essere diventato un libro da viaggio, se non una guida per l’italiano a Berlino, mi ha spinto ad accelerarne la lettura. In origine, mi ero incuriosito perché pensavo descrivesse esperienze da ricondurre alla comunità italiana a Berlino, che avevo frequentato poco nel periodo in cui avevo frequentato la città. Una variante italiana dei libri di Vladimir Kaminer sugli espatriati russi a Berlino, a partire da Russendisco, che hanno ritratto la città in una fase poco precedente della sua immigrazione. Perlomeno, così l’aveva presentato la maggior parte delle recensioni che avevo consultato. In realtà sarebbe molto semplicistico ridurre il volume a questo aspetto. L’approccio di Latronico è decisamente più interessante e complesso, muovendosi intorno a un punto di vista che diventa progressivamente universale, e che a partire da Berlino riflette sulle trasformazioni urbane nel nuovo millennio, identificando la città come caso specifico ma anche globale. Nelle parole di Latronico, Berlino diventa prima il luogo in cui una generazione irrequieta come quella cresciuta in quella zona di margine tra gli ultimi gen X e i millennials aveva trovato il proprio posto tra la fine degli anni Novanta e i primi dieci anni del 2000, poi quella in cui molte di queste persone avevano deciso di fermarsi diciamo in coincidenza con “la fine dei vent’anni”, che per Latronico è coincisa con il suo quarantesimo compleanno. Ma in realtà, procedendo nel libro appare chiaro che Latronico va oltre, e che la sua Berlino non è semplicemente un esempio di gentrificazione, quanto la città che ha incubato e sviluppato questo tipo di ridefinizione degli spazi urbani, diventando nel periodo descritto dall’autore un laboratorio dove si sono sviluppate tendenze poi riprodotte in altre città che sono diventate un modello vero e proprio di sviluppo delle stesse.
La Berlino descritta da Latronico nella prima parte del libro coincide con la Berlino che anche io ho spesso visitato nei miei primi viaggi in Europa: il 2009, che l’autore identifica come inizio della sua avventura berlinese, corrisponde al mio primo viaggio a Berlino, quando il muro era ormai caduto da vent’anni, russi europei si erano stanziati nelle zone più a est, come Prenzlauerg Berg, e l’asse della migrazione si era spostato tra Kreuzberg e Friedrichshain, diventati rapidamente il centro di gravità per un certo tipo di popolazione europea in movimento coi suoi ostelli a basso prezzo, i baretti in cui la birra costa pochi spiccioli, i trasporti funzionali ed economici, dove era facile trasferirsi con poco e reinventarsi una vita a partire da vocazioni artistiche di qualche natura. Sono, i cinque anni descritti da Latronico in cui la città si riempie di artisti, scrittori, musicisti, compagnie teatrali e di danza, dj da tutta Europa, che la trasformano nella capitale dell’arte e della techno. Nella seconda parte del libro, la riflessione si sposta sul ritorno dell’autore subito dopo l’esplosione della pandemia, inseguendo un proposito radicalmente diverso: quello di cercare in città non un luogo di eccessi, ma un posto dove esperire una diversa forma di normalità, la possibilità di ridefinire la quotidianità attorno a criteri che in città sono rimasti unici. L’assunto alla base su cui si costruisce la narrazione del ritorno di Latronico è ripreso da Lauren Oyler, scrittrice americana residente a Berlino, che in un’intervista afferma: “questa resta la migliore città al mondo in cui vivere, perché nonostante stia peggiorando, tutte le altre peggiorano di più” (122).
Soprattutto in un periodo in cui Berlino sembra aver perso la sua originalità perché tutte le città sembrano somigliarvi, almeno nell’aspetto – i baretti, i caffè, gli squat, le gallerie d’arte improvvisate, i clubs nei sottoscala – Latronico riesce anche, attraverso Berlino, a spiegare perché siamo attratti da città che hanno questo forte impatto sull’immaginario – per esperienza personale, oltre che a Berlino potrei riferirmi a Bristol o a Los Angeles – ossia la loro capacità di venderci la possibilità di viverne le storie:
“In un’epoca in cui il conformismo e l’uniformità ci fanno pensare alle dittature o al consumismo cieco del Novecento, il modo migliore di certificare che qualcosa è speciale è mostrarlo autentico, cioè raccontarne una storia” (124).
Insomma, anche se Berlino non è più l’anomalia che è stata fino a qualche anno fa, ed è diventata invece la capitale della Germania come ce la saremmo aspettati, i cui costi hanno sostituito la migrazione di artisti, creativi, perditempo con i nomadi digitali che incontriamo a New York, San Francisco e Los Angeles che vengono qui perché comunque costa meno degli States, Berlino ha conservato la qualità di essere una città che promette molto, e che in molti casi, mantiene.
Il libro è articolato in cinque ampi capitoli che si presentano come saggi autonomi, più una Coda aggiunta a ridosso della pubblicazione. Nel primo, attraverso l’immagine del Tempelohfer Feld, il vecchio aeroporto cittadino trasformato nel parco più frequentato da cittadini e turisti, Latronico descrive il senso di “vacanza” che si percepisce in città, gli enormi spazi che si aprivano a disposizione di chi vi arrivava tra la caduta del muro e il primo decennio del millennio, e che hanno cominciato a rimpicciolire e diventare più cari, oltre che essere definiti da una dimensione anglofona più vicina alla madrelingua degli americani e degli inglesi che hanno cominciato a trasferivisi in numero sempre maggiore, piuttosto che all’inglese ibrido in cui si incrociavano i numerosi accenti nella sua fase di espansione:
“Il vuoto si stava riempiendo. Man mano che l’astronave si avviava a decollare, i posti a bordo si facevano più ambiti. La mano invisibile del mercato traduceva questa caratteristica in più cari. Saliva il costo degli appartamenti” (93).
Il flusso delle persone non cambia, ma cambia la loro natura, non sono più sfaccendati alla ricerca di una collocazione esistenziale o di uno spazio da tradurre in arte:
“Le persone continuavano ad arrivare ma stava cambiando la ragione per cui lo facevano. L’infittirsi della rete dell’arte stava trasformando l’attrattiva della città. Non era più meta di chi cercava un vuoto in cui perdere tempo, perdere sè stesso, sperimentare; ma una tappa produttiva nel cursus honorum artistico in un mercato sempre più globale, una stazione intermedia fra il Master of Fine Arts […] e la carriera a Londra o a New York. Berlino era qualcosa da monetizzare” (93).
Secondo Latronico, Berlino era stata concepita col progetto di trasformare uno spazio urbano in uno spazio artistico internazionale che potesse richiamare artisti e creativi in un posto dove la vita avesse costi accessibili, anche attraverso sovvenzioni e borse, e trasformarlo in uno showcase globale che attirasse i curiosi. Un nuovo modello di comunità e un nuovo modello di turismo. Lo stesso discorso su Berlino è possibile applicarlo a numerose realtà postindustriali che avevano grandi spazi da riconfigurare e riempire e si prestavano a diventare per gli stessi motivi laboratori musicali, artistici, cinematografici, coinvolgendo anche la ridefinizione di spazi dismessi nelle nostre città, come Milano o Torino, che ne avrebbero acquisito solo il potenziale speculativo e la possibilità di attrarre capitali. Per questo motivo, Berlino resta un progetto unico, anche se il vuoto rappresentato dal Tempelhofer Feld come spazio di potenzialità è diventato pure quello un luogo da sfruttare per produrre. Procedendo nei capitoli successivi, incentrati sulla sua esperienza di scrittore e sull’improvvisa elezione a critico d’arte mentre la città di riempie di gallerie ed eventi culturali, Latronico ce ne descrive una mitogenesi che al contempo contiene anche gli elementi della sua caduta, romanticizzandola con l’occhio cinico di chi ne vede anche limiti e criticità, riuscendo a restituire una descrizione tangibile di una città che per molti di noi è esistita solo nelle proprie teste, e che, come appunto sottolinea in alcuni punti del libro, era difficile da raccontare a chi veniva a trovarti.
Forse gli aspetti più affascinanti del libro sono proprio quelli in cui l’autore cerca di catturare le sensazioni di chi abita la città:
“Questo spaesamento, questo senso di vuoto, mi sembra estremamente diffuso fra i miei amici e conoscenti, in Italia o a Berlino – quelli che con una brutta semplificazione sociologica potremmo chiamare millennial. Ne incolpiamo la gentrificazione, che infatti è un tema ossessivo per i miei coetanei, i primi esponenti della classe media a vedere il diritto alla casa come non più acquisito (anche se non certo gli ultimi). Ma più ci penso più ho l’impressione che la città sia solo uno dei campi di gioco di un fenomeno molto più vasto e pervasivo, epocale” (127).
Forse in questo richiede la più grande abilità dell’autore, quella di riuscire a dare intellegibilità all’effimero del desiderio, senza ricorrere all’opportunità della nostalgia: un mondo dove virtualmente è possibile avere tutto ovunque e in cui niente è esclusivo tende al disincanto perché sparisce il desiderio. Questo aspetto non ha niente a che fare con la possibilità di rendere un oggetto più esclusivo di un altro, perché rimane simile. La chimera dell’inclusività, allo stesso modo, rendendo tutto possibile, ci fa accedere a una società più giusta, ma il prezzo che paghiamo è la delusione di ogni trasgressione. E forse la speranza che le nuove generazioni vivano in un’utopia in cui tutto è concesso e ottenibile facilmente, in cui non debbano lottare. Al ritorno dopo anni, come Latronico, non ho potuto fare a meno di notare come la città sia profondamente cambiata in molte cose, in altre non sia cambiata per niente, confermandosi profondamente Berlino: una città piena di possibilità, che si costruisce sul potenziale piuttosto che sulla concretezza, una città fatta di spazi da riempire, anche se quelli fisici si sono ridotti. Ma su tutto, continua a presentarsi come un luogo unico per quanto in molti provino a riprodurne alcuni aspetti, mancando clamorosamente nella capacità di coglierne lo spirito più autentico. Allora, a quel punto, mi sono reso conto anche io che tutto quello che ho cercato fuori da Berlino era in fondo Berlino. E se come tanti, ho deciso di non tornare a vivere a Berlino, fa bene sapere che c’è una Berlino in cui ci si può rifugiare, magari per qualche settimana, sapere che un altro mondo è effettivamente possibile.