Il legame tra Berlino e Bowie non è mai finito

Photo: Sarah Stlerch on Flickr

È un sabato sera tipico invernale, a Berlino, con la neve che si lascia cadere, morbida e lieve. Ma stasera c’è qualcosa di diverso, nell’aria. Quale che sia il quartiere in cui ti trovi, quale che sia la strada o la piazza, quale che sia il bar, il pub, il club di cui varchi l’entrata, ovunque ti capita di sentire una riproduzione di brani del medesimo artista: nei locali più mainstream risuonano le sue hit più celebri, in quelli più ricercati, invece, puoi apprezzare con un sorriso quell’out-take da un suo disco dei tardi Novanta, che ti era capitato di sentire per caso un’unica volta nella vita in un minuscolo record shop di Friedrichshain, e sai che è suo perché ne riconosci la voce, ma di quel pezzo non hai mai saputo il titolo. Ovunque, i DJ esibiscono sulle consolle le copertine dei suoi vinili che suonano, facendo a gara a chi tira fuori quella che più plausibilmente porta i segni di trenta, se non quarant’anni, di usura.

Ma non è solo la musica che Berlino suona. La neve continua a depositarsi, infatti, su quei manifesti piuttosto funebri, con la stella nera su fondo bianco, che continuano a moltiplicarsi invadendo strade e fermate della metro: saltando da un treno e l’altro, anche il più distratto lascia cadere un’occhiata immalinconita. I fiori depositati davanti al palazzone di Schöneberg dove oggi c’è lo studio di una malcapitata fisioterapista, invece che diminuire, aumentano di giorno in giorno, e c’è chi ha cambiato i cartelli di Hauptstrasse con quelli in cui si legge David-Bowie-Strasse.

Ecco, cosa c’è di diverso, stasera. C’è Berlino che celebra il primo fine settimana di assenza di uno dei personaggi a cui è rimasta più legata, e nessuno è autorizzato a tirarsene fuori: neppure il clima, invitato a predisporre questo soffice letto bianco ad attutire i passi sull’asfalto. D’altra parte, se c’è una cosa per cui questa città è famosa, è proprio per la sua inesauribile capacità di ricordare e commemorare. Così, mentre torno a casa alle due di notte, dopo una serata di mesmerica sovraesposizione alle musiche e alle liriche del sottile Duca Bianco – come se avessi ascoltato qualcosa d’altro, negli ultimi sette giorni – comincio a pensare di essere proprio nel posto giusto, in questo momento, e che l’esserci abbia dietro un qualche motivo. Mi appare plausibile che ognuno in vita abbia sviluppato ragioni personali per legarsi a una persona che non ha mai incontrato ma che ritiene in qualche modo importante, e senza possibilità di equivoci, per me quella persona è David Bowie, e che quelle ragioni, in maggior parte, interessano il mio rapporto con Berlino.

Bowie è stato a Berlino con me, dal momento in cui ho messo piede per la prima volta ad Alexanderplatz, sette anni e mezzo fa, con Heroes sparato a tutto volume negli auricolari per sottolineare l’epicità di quel momento per me storico. La trilogia berlinese è stata la soundtrack di ogni mio soggiorno successivo, e lo è tuttora, con Always crashing in the same car ad accompagnare ogni atterraggio a Schönefeld e Tegel. Berlino è Bowie, è il gasometro di Schöneberg visto di passaggio dalla S-Bahn al mattino e alla sera, è l’enorme insegna della Mercedes che ruota sul palazzone del Berlin Morgenpost davanti alla stazione dello Zoo, è il concerto suonato davanti al Muro pochi mesi prima del suo abbattimento, con l’intera città a gridare le sue canzoni da entrambi i lati, è il Ring che, ogni giorno, in una direzione o in un’altra, oscilla tra est e ovest mettendo in contatto queste due anime della città, è il viaggio nel tempo tra il passato di quegli anni Settanta dell’apice della Guerra Fredda e il presente del 2013 in cui ci siamo chiesti dove siamo arrivati, adesso. Bowie è stato Zeitgeist – e non solo Ziggy Stardust – e al tempo stesso, colui che ha prodotto lo Zeitgeist, ispirando diverse generazioni di ascoltatori e dettando i loro desideri, i loro sogni, le loro pettinature, il modo in cui vestirsi, e quale musica ascoltare.

Trascorsa un’intera settimana, i berlinesi non si sono sentiti appagati, e continuano a condividere su qualsiasi giornale, rivista, social network e network televisivo e radiofonico le loro centinaia di testimonianze, cantanti, attori, politici e altre varie personalità, che abbiano conosciuto Bowie o no hanno imperversato a raccontare i loro ricordi legati a lui. Continua a farmi sorridere, piuttosto che infastidirmi o annoiarmi, che un essere umano possa aver dato a persone così diverse e di età così diverse così tanti spunti di conversazione. Che abbia potuto dare così tanto. Per esempio, io non saprei bene cosa raccontare, non ricordo precisamente a che periodo risalga l’inizio della mia storia con Bowie. Le sue prime immagini nella memoria si perdono in un passato piuttosto lontano e indefinito, costruito per strati in cui si amalgamano con quelle di Luke Skywalker, Han Solo e dei personaggi dei film di fantascienza che sbirciavo quando mio padre era di fronte al televisore, ma anche con quelle dei personaggi di film fantasy come Labyrinth, e con le facce dei video musicali mandati da Videomusic in quei pomeriggi interminabili. David Bowie c’era quando mi immaginavo i razzi che portavano nello spazio astronauti e cosmonauti, borbottando qualcosa che suonava vagamente come “can you hear me, Major Tom?”, c’era durante le serate estive sdraiato in spiaggia a cercare le stelle e confrontarle con una cartina trovata in una rivista di astronomia, c’era quando da adolescente, sognavo di drogarmi e fare le marchette sul Kuddamm insieme a Christiana F., c’era anche quando ho scoperto che Christina F. aveva una relazione con l’eccentrico frontman di una band dal nome impronunciabile che suonava tubi e lamiere al posto degli strumenti, nel più incredibile cross-over della mia adolescenza, e quando ho scoperto cosa succedeva davvero nei diversi film a cui ha preso parte, quando li ho rivisti in modo consapevole. C’era molto prima, che nelle mie solitudini berlinesi, ad tenermi compagnia nelle mie solitudini napoletane, durante gli anni passati in quel liceo della provincia remota in cui i miei coetanei si leggevano le traduzioni dei testi di Freddie Mercury e Kurt Cobain dalle riviste per teenagers, mentre io, col vocabolario in mano, cercavo di capire cosa cappero ci faceva Topolino con una mucca in mezzo ai marinai in una sala da ballo, e soprattutto, quand’è che arrivavano i marziani. C’era in uno dei più bei ricordi legati alla mia cover band del liceo, quando l’eroica proposta di Rebel Rebel da parte di un chitarrista venne accolta con una sonora pernacchia, prima di passare alla riproduzione dell’ennesimo brano degli Oasis.

Insomma, non credo ci sia modo migliore di inaugurare una rubrica sulla musica a Berlino, che dedicarlo alla Berlino di David Bowie, e allo shock che tutti i berlinesi hanno ricevuto nel passare dai parties di compleanno per festeggiare l’uscita del nuovo disco, a quelli di commemorazione per il personaggio scomparso. E quindi, bentornato sul tuo pianeta, starman, e grazie per averci fatto illuminato per così tanto. Ti capitasse di cambiare idea, un giorno, sappi che qui c’è tanta gente che ti accoglie volentieri.

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