City Sounds

[Berlin Sound] (Non-)incontri fortunati: Barbara Morgenstern + Julia Kent @ Roter Salon

Ci sono incontri che cambiano il corso della storia, ma anche i non-incontri possono rivelarsi fondamentali nell’epoca dei social network, in particolare a Berlino, città degli incontri, ma soprattutto, dei non-incontri. Per esempio, quelli tra me e D. hanno riscritto radicalmente la mia quotidianità berlinese, soprattutto quella serale. Si tratta di un amico di un mio caro amico, nonché flatmate, di Bristol: il ponte tra le due città resta sempre attivissimo. Hanno condiviso diversi progetti musicali negli anni dell’università, tra Edinburgo e Glasgow, e poi i loro percorsi musicali si sono divisi, uno si è spostato a Brizzle, e l’altro invece ha intrapreso la sua avventura berlinese. Prima di essere una non-persona e una serie di messaggi telematici, visto che ogni nostro tentativo di incontrarci dal vivo per qualche ragione fallisce sempre, D. è un blog – Digital in Berlin – nonché una voce, quella di una webradio, collegata al sito e che ne riprende il nome. Per quanto mi riguarda, D. è una delle massime autorità sulla vasta gamma di sonorità elettroniche che girano intorno a Berlino e che non si riducono alla massimalista techno, e che continuiamo a esplorare insieme a lui in questa edizione, dopo l’indietronic della volta scorsa.
Inoltre, siccome, scriveva Vladimir Kaminer, Berlino è soprattutto città del teatro – e non solo della techno, come piace pensare a molti ultimamente – a sorpresa in questa edizione si parla anche di teatro, visto che ne abbiamo visitati addirittura due. E, aggiungerei, nostro malgrado.

La prassi ormai è la seguente: mi trovo un messaggio di Dirk nella mia casella dei messaggi, e decido di recarmi sul posto, senza chiedermi nè se nè perché: una pratica che, finora, non ha mai deluso. È così che mi sono trovato, sabato scorso, privo di alcun indizio possibile, di fronte al HAU (Hebbel am Ufer), al numero 2 di questa serie di teatri, per una rassegna dedicata a Heiner Muller, drammaturgo del secondo novecento tedesco. Che cosa sarà mai questa rassegna, mi chiedevo, recandomi a questo misterioso indirizzo di Kreuzberg, intorno a Hallesches Tor, una zona abbastanza fuori mano, di fianco a uno dei caseggiati ritenuti più malfamati di Kreuzberg. In realtà, all’arrivo, con le sue luci al neon e il suo ambiente artificialissimo radical-hipster berlinese, HAU 2 mi è sembrato un club disco più che qualcosa che somigliasse alle idee di teatro tedesco di cui è sempre stata affollata la mia mente: si tratta, mi si dice, di uno dei posti più all’avanguardia per quanto riguarda la sperimentazione nell’ambito di danza, teatro danza e performance audiovisive. Poi ho scoperto anche che lo spettacolo “Wie es bleibt, ist es nicht” / 5 Songs für Heiner Müller”, vedeva un numero (5) di vari esponenti di elettronica sperimentale – Gudrun Gut, Khan of Finland, OFRIN, Masha Qrella e The toten Crackhuren im Kofferraum – presentare ognuno un contributo all’opera del drammaturgo, in una maratona di circa 45 minuti, gran parte dei quali passati a montare e smontare gli strumenti.

Ma è al suggerimento seguente, il lunedì successivo, che D. ha fatto davvero centro. Si è trattato, in realtà, del concerto di una vecchia conoscenza, per cui ci sono andato un po’ meno a scatola chiusa: Barbara Morgenstern. Barbara l’avevo già vista a Napoli, al glorioso Mutiny Republic, precisamente 8 anni fa. In realtà, avevo perso di vista la sua musica, come spesso avviene, nonostante conservassi ricordi molto piacevoli di lei e della sua performance. Anche in questo caso, dicevo, c’entra il teatro: il prestigioso e storico Volksbühne, a Rosa-Luxemburg-Platz, che ha visto gente pestarsi selvaggiamente e mutilarsi sul palco nel nome dell’avanguardia per alcuni decenni.
Devo dire che anche il Volksbühne è una vecchia conoscenza: ne abbiamo parlato un annetto e mezzo fa, in una delle ultime edizioni di Bristol Sound, in cui mi ero trovato nel Grüner Salon, la saletta laterale a destra del Volksbühne. L’altra volta, però, non sapevo che il suo nome significava “salone verde”, e neppure che il Roter Salon, dove ci siamo recati stavolta, significasse “rosso”, quindi l’esperienza si è rivelata diversa fin dai presupposti linguistici – malgrado i miei progressi col tedesco non mi abbiano aiutato molto a capire cosa Barbara raccontasse dal palco, con mio grande disappunto, visti gli scrosci di risate del pubblico che mi circonda. Ciò non cambia che, come nella scorsa edizione a proposito del Berghain, anche stavolta ci siamo avvicinati a un luogo mito di Berlino, ma senza varcarne la soglia principale: ci accontentiamo di nuovo dell’ingresso di servizio, che in questo caso, ci porta nella saletta laterale a sinistra del salone centrale. Nondimeno, anche in questo caso, lo spettacolo a cui assistiamo è un concerto di primo piano – anche D., scopro, ama Barbara Morgenstern alla follia, e mi dice che ha preso la decisione di trasferirsi a Berlino proprio grazie a lei, trovando di grande ispirazione la sua musica e la sua performance.

Barbara Morgenstern ha presentato al Roter Salon il suo nuovo disco, Doppelstern, nella seconda data a Berlina del tour in pochi mesi. Ci siamo persi la prima, allo storico SO36 di Kotbusser Tor, a novembre, per pochissimo, ma confesso che spero ce ne saranno altre, perché tornerei più che volentieri a rivederla anche se l’avessi sentita già in entrambe queste uscite. Per rispettare il titolo del disco, e dare supporto alla frase che lo introduce sul suo sito – “Si, le stelle doppie esistono, sono una realtà” – Morgenstern si propone in tandem con la violoncellista newyorkese Julia Kent, che si è esibita prima, ma anche durante, il concerto principale, duettando deliziosamente con Morgenstern in più riprese, aggiungendo alle vibrazioni elettroniche uno spessore di intensità addizionale, straordinario. Si è trattato, anche in questo caso, di un incontro alternato a un non-incontro, dunque. Ma le duplicità non finiscono qui: lo spettacolo unico allestito da Barbara infatti procede alternando pezzi nuovi e vecchi, quelli nuovi in tedesco e quelli vecchi in inglese, due lingue che si incrociano sia nelle canzoni, sia nella continua comunicazione col pubblico e coi musicisti ospiti che si alternano sul palco – non sia mai detto che un artista si presenta in solo perché non abbia voglia di condividere il suo talento con altri.
È Julia Kent che ci accoglie nella saletta rossa, mentre sediamo comodi sulle poltroncine e a fianco alle finestre che si aprono su una magnifica vista dall’alto di Mitte. A piedi nudi, ci tiene compagnia per una mezzora con le sue melodie eleganti e vellutate, per poi accompagnare Morgenstern per i primi due pezzi, togliendo e rimettendo le scarpe ogni volta che sale e scende, dando vita un siparietto piuttosto buffo, quasi un cabaret non intenzionale. Ma è quando Barbara appare sul palco che comincia il vero show: un’ora e mezzo abbondante di incontenibile di passione ed entusiasmo. Nella sua generosa performance, Barbara trasuda una spontaneità e una gioia di esibirsi assolutamente incontenibile, così rara da trovare in un’esibizione live, abbinata a una grande sicurezza e a tanto mestiere, certamente. Spontaneità e mestiere appaiono anche nei numerosi duetti: è facile accorgersi che non c’è stato un lungo lavoro di prova dietro lei e Kent, ma nonostante ciò, i suoni si intrecciano spontaneamente, come avessero sempre lavorato insieme: che sia merito di Morgenstern o di Julia, non ci è dato saperlo, ma in realtà neppure ci interessa. Quello che è certo è che entrambe in questa formazione a doppia-stella, non nascondono neppure per un secondo il piacere di essere lì a fianco l’una dell’altra.

All’uscita, io e la mia amica tedesca – che si è presa la briga di commentare una parte delle battute in tedesco – commentiamo che ci vorrebbe un concerto come questo ogni lunedì sera, Una benedizione per il resto della settimana, nonostante il silenzio notturno che ci avvolge per strada, e grazie agli orari dei concerti berlinesi, perfettamente in tempo per essere svegli, reattivi, e di ottimo umore, quando alle 7.30 la sveglia ci riporta alla dura realtà del martedì lavorativo. E se anche stavolta mi sono perso l’incontro ravvicinato con D., intanto, al termine di questo week-end lungo mi ripeto: che fortuna averlo (non) incontrato.

Francesco Chianese

Irrequieto e tendenzialmente poco incline a credere nell'esistenza di una età adulta, fuori posto più o meno in qualsiasi contesto, giornalista redento, scrittore poco ispirato, musicista che prova a ormai a smettere con una certa costanza, nerd part-time e true believer con episodiche crisi di autostima, e pure, pare, una cosa che chiamano dottore di ricerca, in letterature comparate. Ha scritto un libro per Mimesis: «Mio padre si sta facendo un individuo problematico». Padri e figli nell'ultimo Pasolini (1966-75). Al momento, è spiaggiato a Long Beach, California. Se la vita è una bicicletta che se non pedali cadi, vediamo pure di non bucare. Meno male che almeno la musica, quella non si esaurisce mai.

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