Certo sarebbe stato interessante aprire questa edizione di Berlin Sound recensendo soddisfatto il concerto dei Massive Attack al Tempodrom. Berlino avrebbe realizzato uno dei miei sogni bristolesi rimasto insoddisfatto in patria: quello di poter vedere live il gruppo più importante prodotto dalla scena musicale locale. I Massive Attack, il gruppo che ha inventato il trip-hop, creazione di Robert Del Naja, l’uomo che con il nick di 3D ha importato dal bronx di NY in Europa hip hop e graffiti, trasformando una piccola, tranquilla, pigra cittadina post-industriale del sud dell’Inghilterra nella capitale della street art e dell’eccentricità. Invece, i biglietti del concerto sono andati sold out quasi prima di essere messi in vendita, nonostante la doppia data, e gli accrediti assegnati prima che le date fossero state annunciate. Quindi, con la grazia della volpe che fissa la vigna lontana, mi limito a registrare che un altro filo rosso che lega Napoli, Bristol e Berlino, le mie tre città, è quello di non averci mai visto i Massive Attack. Poi, qualche giorno dopo, è arrivata la mail del mio accredito per il Berghain, e quindi tanti saluti a Del Naja e Daddy G, ed eccoci pronti a recensire i Ms. John Soda, che è come dire, QUASI la stessa cosa. Ed ecco come come questa puntata di Berlin Sound, nata sotto il segno della delusione per il sogno bristolese di una vita, è QUASI diventata la celebrazione di quello tutto berlinese di vedere il proprio nome sulla guest list della cattedrale europea della techno.
L’enfasi su questi due “quasi” è a discrezione del lettore: infatti, il mio nome sulla guest list ci è finito davvero. Una volta sul posto, però, mi sono reso conto che si è trattato del Berghain, si, ma della saletta minore, in cui si svolgono i concerti considerati di richiamo inferiore. Più precisamente, si è trattato del Kantine am Berghain, nei locali della ex-mensa della vecchia centrale elettrica che oggi ospita il popolarissimo club: un piccolo padiglione posto alla sinistra del cubo di cemento che ogni fine settimana ospita per oltre 48 ore un interrotto vortice danzante di 1500 persone. Certamente più discreto, il Kantine appare facendosi strada tra altalene e alberi, e accoglie i visitatori in una piccola anticamera con una serie di poltroncine disposte intorno a un camino, estremamente cozy, per poi introdurre a una sala che può ospitare un centinaio di persone, dall’aspetto spartano e minimale, post-industriale come piace ai berlinesi. Se il Berghain si è imposto rapidamente come la cattedrale europea della techno, meta di un vero e proprio pellegrinaggio di youngsters che si spostano a Berlino appositamente per dedicare il week-end a questa esperienza totale, il Kantine nel mio caso si è prestato a fare da cappella per celebrare la resistenza a volume ridotto di una realtà musicale altrettanto elettronica e tedesca: quella dell’indietronic di provenienza bavarese, che all’inizio del millennio è stato l’inno dei nerd e degli alternativi che ancora non si facevano chiamare hipsters e non avevano cominciato a crescere sontuose barbe. Ci siamo venuti in occasione appunto del tour del nuovo album dei Ms. John Soda, Loom, uscito senza fare troppo rumore negli ultimi mesi del 2015.
Nutrito nella sua discreta nicchia da un certo numero di patiti, rimasti fedeli anche quando l’hype generale è rapidamente scemato, l’indietronic ha costituito per alcuni anni, più o meno tra il 2002 e il 2005, un’alternativa gentile all’elettronica mainstream, col suo beat effervescente e delicato, a tratti malinconico, a supporto di soavi voci dreampop. Inaugurato dalle sonorità dei Notwist nella loro fase intermedia e maggiore – Neon Golden e The Devil, You + Me – l’indietronic è stato principalmente coltivato dai medesimi fratelli Acher in alcuni progetti paralleli: i Lali Puna del chitarrista Markus, e appunto, i Ms. John Soda del bassista Micha. Questi ultimi sono apparsi all’improvviso nella top 50 di Pitchfork nel 2003 con No P. or D., e poi sembravano essere spariti nel nulla, almeno per quanto riguarda chi scrive, fino al momento in cui il loro nome mi è riapparso in questa locandina circolata su internet. Loom appare a circa dieci anni dal secondo e ultimo disco del duo formato da Acher e da Stephanie Böhm, tastierista dei Couch, intitolato Notes and the Like, uscito nel 2006. Si tratta di un progetto che contiene una bella fetta di storia musicale tedesca. Oltre alla parentela via Acher, e alla provenienza dal medesimo paesino del sud della Baviera, Weilheim in Oberbayern, di cui sono originari pure i Couch, Ms. John Soda condividono con Lali Puna e Notwist anche l’etichetta berlinese con cui hanno prodotto i loro tre dischi: la Morr, fondata nel 1999 da Thomas Morr mettendo insieme una quindicina di gruppi personalmente scelti in base ad una certa affine identità elettro-pop, tra cui figurano non solo gruppi locali, ma anche gli islandesi Mùm. Sotto Morr è uscito anche l’ultimo disco del progetto maggiore di Böhm: questa intensa circolazione di musicisti e di suoni sembra aver costruito un ponte importante tra la capitale tedesca e la piccola cittadina del sud, di cui siamo stati testimoni stasera.
Passando al live act, introdotto dai giovani Slow Steve, un altro gruppo Morr, rockettino giovane e diverente, senza infamia e senza lode, devo dire che la performance di Ms. John Soda si è rivelata sorprendente e decisamente ben oltre le mie aspettative, e lo dico da rappresentante dei supporters a oltranza dell’indietronic di cui sopra. Arrivato con le orecchie imbevute dell’ascolto ripetuto delle melodie sintetiche e malinconiche di Loom, un disco bello e rotondamente pop, esente delle ruvidità rock di Notwist e Couch, nonché delle oscillazioni groovy di Lali Puna o di altri gruppi dalle sonorità affini, come gli svedesi Radio Dept, sono rimasto sinceramente stupito dalla potenza dell’esibizione. Come prima sorpresa, Böhm e Acher si sono presentati insieme a un ulteriore tastierista e un batterista, trasformando il duo in un quartetto. Ma la sorpresa più grande è stata vedere Böhm mettere da parte le tastiere ed esibirsi da secondo bassista per buona parte del concerto. Ispessito dal doppio basso e dalla batteria acustica, la performance è andata avanti potente e groovy per un’oretta alternando pezzi vecchi a quelli nuovi, inclusa una cover di Here she came degli Slowdive. La delicata voce di Böhm è forse stata parzialmente messa in secondo piano – cosa che non è certamente accaduta alla sua possente presenza sul palco, come alternativa al timido Acher – ma il pubblico, che intanto aveva riempito la sala, si è lasciato travolgere in una danza ininterrotta, forse anche un po’ in tono di sfida al popolo che, nel locale a fianco, si stava scatenando sulla techno.
Eppure, mentre mi immergevo nei colori della notte berlinese sorridendo soddisfatto, facendomi strada tra i palazzoni di Friedrichschain con le luci del Berghain tutte accese, mi è rimasto in bocca un po’ di amaro. Cioè, decisamente più che un po’. Con tutto il rispetto per la techno e i suoi seguaci, mi è venuta una certa tristezza, all’idea che un gruppo indietronic a Berlino non riempirà mai un locale di 1500 persone, né tantomeno il Tempodrom – con tante bestemmie ai Massive Attack e alle loro pose da outsiders, ormai tutt’altro che tali – ma solo questo piccolo, delizioso bugigattolo. Insomma, per quanto vivace sia la resistenza di queste piccole realtà, non è certo una bella sensazione, quella di uscire entusiasti da un concerto intensissimo ma rendersi conto che quella dell’indietronic è stata un’avventura veloce, e che hai avuto l’ennesima dimostrazione della straordinaria bravura di Berlino a tenere in vita un genere che a differenza del trip hop e della techno, non ha saputo rinnovarsi, e che procedendo nella semplice, intensa, splendida riproduzione delle medesime sonorità, appare più morto che mai.