Esattamente 50 anni fa usciva la prima copia di Rolling Stone, la rivista fondata nel 1967 da Jann Wenner a San Francisco. Nel primo editoriale ai lettori Wenner scrive: “Rolling Stone non parla solo di musica, ma anche di cose e atteggiamenti che coinvolgono la musica”. Quello che aveva in mente Wenner era stimolare un’intera estetica, un linguaggio – al passo coi tempi e con il ritmo del rock. La rivista accoglieva inchieste, firme d’eccezione (scrittori come Hunter S. Thompson), la missione restava quella di fare giornalismo, costruire una cultura intorno alla controcultura rock. Naturalmente erano gli anni dell’esplosione del rock, dai Beatles agli Stones, fino ai primi grandi festival di massa di cui abbiamo memoria. Da qualche settimana Wenner ha messo in vendita Rolling Stone. Nonostante nel corso degli anni la rivista si sia rinnovata, si sia aperta al pop, abbia cominciato a usare un linguaggio più ecumenico per reggere i tempi, il mito e modello RS di fondazione pare vivere una certa discesa.
Parallelamente i giornali seguono un modello più “liquido”, cavalcando l’onda lunga del successo delle webzine. Parte dell’immaginario di Rolling Stone si deve anche alla sua copertina: dalla primissima con John Lennon tanti ne sono passati su quella cover, da Kurt Cobain a Barack Obama e Britney Spears. Eppure la storia di copertina sui giornali ormai sembra avere qualcosa di novecentesco. Qualcosa che ha a che vedere con la carta, con l’oggetto fisico del magazine che teniamo tra le mani, con l’odore di quella carta, con tutte le resistenze e i compromessi che l’uomo post-Novecentesco ha dovuto imparare sulla propria pelle dopo la rivoluzione digitale.
Pitchfork è una webzine nata nel 1995 nel Minnesota, tempi in cui le connessioni internet erano più lente di una colazione proustiana. Fondata da Ryan Schreiber, inizialmente si occupava solo di interviste e recensioni, il focus era centrato soprattutto sulla musica indipendente, sul tentativo di dire la propria al di fuori delle dinamiche delle riviste di settore mainstream, sfruttando tutte le potenzialità dell’era digitale. A Pitchfork bastava internet per riuscire a raggiungere tutti gratuitamente. Così, nel giro di pochi anni, riuscì a diffondersi e far crescere consenso e brand. Iniziò ad aggiornare anche le news dal mondo musicale, diventando un modello alternativo di webzine stra-copiato nel mondo, che esercitava anche un certa influenza sul settore musicale. Nel primo decennio del Duemila riuscì a interpretare alcuni filoni musicali come l’indie-rock. Erano anni in cui Broken Social Scene, Arcade Fire, e National stavano venendo a galla, e fu anche grazie a Pitchfork se riuscivamo ad accorgercene.
Nel frattempo il rock cominciava a soffrire di una crisi di ispirazione, i giornali di carta iniziavano a faticare con le vendite, e la musica cominciava il suo trend dello streaming gratuito con servizi come Spotify e Deezer. Stava succedendo qualcosa sotto i nostri occhi: il giornale tendeva alla liquidità. Leggere una recensione di Pitchfork era gratuito, comprare RS e tutto il suo pacchetto cominciava a diventare una scommessa contro-tempo. Ascoltare un disco su Spotify per provare a scoprire una nuova band indipendente riaccendeva la nostra curiosità più di leggere un trafiletto dedicato in un angolo oscuro di un giornale di carta.
E poi c’erano i festival, che diventavano sempre più numerosi, e ci permettevano di scoprire dal vivo musica fresca. Era questo il nuovo spirito e il nuovo linguaggio dei tempi. E Pitchfork riusciva a interpretarlo. Nel 2006 organizzava la prima edizione del suo festival a Chicago (dove ora ha sede), e nel 2011 esportava il Pitchfork Festival anche in Europa, a Parigi. Nel frattempo godeva anche di un vero e proprio palco al Primavera Sound, uno spazio di proposta e scoperta.
Giunto alla sua settima edizione il Pichfork Festival Paris si è tenuto – come di consueto – alla Grande Halle della Villette il primo weekend di Novembre. E sembra aver portato avanti un discorso che Pitchfork sta cercando di fare negli ultimi tempi e che somiglia a un passaggio di paradigma dall’epopea dell’indie-rock a quella del rap e dell’hip hop. Qualcosa sta accadendo – si dice – sotto i nostri occhi. I suoni incendiari delle chitarre del rock che accendevano gli animi delle generazioni dai Sessanta in poi oggi potrebbero suonare fuori-tempo. Lo si capisce nel vedere il pubblico del festival accendersi per quel Loyle Carner che si va consacrando come futuro del rap inglese. E la giornata del sabato del P4k Festival è stata decisamente votata al rap.
Loyle Carner, Princess Nokia, Run The Jewels: il sabato del festival è tutto devoto a questo sound. Se il rap del giovane londinese Carner è più melodico, quello di Princess Nokia è duro e carnale. Come “una Beyoncé di Harlem” si presenta sul palco in versione kitch-catchy, con tutto il romanticismo di una portoricana rappeggiante che ha bisogno di comunicare un messaggio – evangelico a suo modo – alle nuove generazioni di giovani che la seguono (e il termine non è usato a caso). Una scenografia minimale per lei, proprio laddove invece Loyle Carner circonda il palco di simboli, come una grande maglietta da soccer team che porta il suo nome e una vecchia lampada a far da contraltare al suo sculettio da palco.
Per entrambi i live la reazione del pubblico è la stessa: un grande entusiasmo, una partecipazione, un tenere il ritmo del tempo della musica anche cantanto e rappando, e un certo modo di muoversi. Ecco, a guardarli, come si divertono, potrebbe passarci per la testa quanto e come ci stiamo terribilmente allontanando dai tempi del rock’n’roll, per entrare in una nuova epopea, in una nuova narrazione. Un’era che porta il marchio del tridente di Pitchfork. Un’epopea dove le app trionfano sulla carta, tanto che il programma del festival lo trovi a portata di mano solo scaricando l’applicazione del festival. Non avrai nessun programma stampato qui dentro, perché è questo il nuovo ritmo con cui si balla, quello a cui dovrai assecondarti.
Princess Nokia lo sa: con quell’aria un po’ nigga, lo sa. Le cadono gli occhiali da sole giganti mentre canta e si sbatte, qualcuno le offre dei fiori, lei ne sembra timidamente sorpresa e accoglie quel mazzo di fiori con garbo, mentre le ragazzine ripetono a memoria i suoi testi danzando sotto palco, ed è miracoloso – davvero miracoloso – come si possano imparare a memoria ritmi di testi così veloci, rapidi, ritmati, e farciti di terminologia slang. Ma succede.
Questo non vuol dire che il sabato del Pitchfork Festival sia una serata a tema. E del resto per un cast che alterna The National, Run The Jewels e Jungle sui due palchi, non si può parlare di un festival di genere. Per esempio tra i live di Carner e Princess Nokia c’è il tempo di dedicarsi alla musica dei BADBADNOTGOOD, che con il loro jazz raffinato regalano un altro ritmo al discorso musicale.
Sembra che ci sia insomma un ritorno e una sotterranea voglia di jazz, come si cercassero nuove direzioni per un genere che poteva parere antico, un capitolo da beat generation, un’intrusione veloce di Charlie Parker nel Ventunesimo. Forse è sempre tutta colpa di Kendrick Lamar – che tra le altre cose ha dato il la al grande successo del sassofono di Kamasi Washington. Così, un altro re incontrastato delle tre serate del festival parigino è il ritorno degli strumenti a fiato. Possiamo vederli come dei grandi protagonisti.
Ma è presto per cantare la morte del rock e organizzare il suo funerale. Davvero presto. C’è chi il rock continua a suonarlo – e rinnovarlo – e ci riesce pure bene. Senza andare a pescare troppo lontano con i nomi, i dischi di quest’anno di Father John Misty, del furetto King Krule, o dei The National, continuano a suonare rock. Forse non incendieranno il sotto-palco come nei Settanta, e probabilmente viviamo all’epoca del protestantesimo del rock’n’roll. Ma quell’afflato non si è mai spento sul serio. Così come i giornali di carta non ci hanno mai abbandonato sul serio.
Al giovedì gli headliner del Pichfork erano proprio i National, che inoltre avevano scelto l’intero cast della prima giornata del festival: da Kevin Morby (altro che il rock continua a farlo) alla certezza Ride, dal folk indipendente di Kate Stables aka This Is The Kit, a uno di quelli che scommettiamo diventerà un grande interprete della nuova generazione del futuro songwriting, Moses Sumney, che con la sua voce splendida conquisterebbe anche un anti-melomane. Il suo Aromanticism dal vivo resta un portento, che mescola soul, folk ed elettronica a una voce esplosiva. Non c’è da sorprendersi se presto Moses sarà sul palco del Linecheck Festival di Milano insieme a Perfume Genius, perché le sensibilità sono molto simili.
Per chiudere la serata un live dei National resta sempre una garanzia. L’entrata sul palco è epica, con i visual (a volte addirittura troppo colorati per una band dall’animo oscuro) realizzati per il nuovo album Sleep Well Beast. Ci si chiede se tutto questo non abbia un po’ l’aria di un concerto degli U2, ma è sempre e solo una domanda che si agita sullo sfondo, perché Matt e co. non sono mai caduti nelle placide acque chete del pop – almeno per ora. Così il nuovo album riesce a fondersi meravigliosamente alle atmosfere che loro sanno sempre e comunque dipingere. Si comincia – a sorpresa – con Karen, pezzo estratto da Alligator che fa sempre piacere risentire. E c’è tutto il tempo di passare in rassegna anche bei successi della band, come Bloodbuzz Ohio o Slow Show. Ma la sorpresa più piacevole resta quella di sentir suonare dal vivo il nuovo album, che effettivamente esce fuori davvero bene. I fratelli Dessner si alternano tra chitarre e pianoforte, la batteria è sempre lì dietro a tenere il tempo come un’anima che ansima e soccorre. Forse Matt Berninger sta invecchiando – e questo dovremmo accettarlo, perché toccherà anche a noi.
Ma visto che al giovedì sera c’è una metropolitana che chiude presto, il live dei National soffre lo svantaggio – deciso da copione – di durare poco più di un’ora, con il risultato di regalare un set corto, con un Berninger che scende dal palco per mescolarsi alla folla una volta sola e per una sola canzone, e il taglio di pezzi-caposaldo del nuovo album come Nobody Else Will Be There (“can we just go home”, Matt?), che avremmo voluto sentire dal vivo, soprattutto per quella presenza del pianoforte che Aaron Dessner dimostra di saper maneggiare davvero bene.
Così va a finire che il live “di copertina” del festival è quello dei Run The Jewels. Con una scenografia che ricalca gli artwork di copertina dei loro album, il duo hip hop statunitense riesce a rendere carico il pubblico fino all’esplosività di una ghetto-dance da combattimento sotto palco. Per chiudere il cartellone del sabato, prima della serata after party – inaugurata dalle architetture psichedeliche da palco dei The Blaze -, i Run The Jewels sembrano essere i perfetti interpreti dello spirito di ricerca a cui ci ha abituato Pitchfork nel corso degli anni. A far da contraltare i Jungle, headliner del venerdì, che con il loro funky irresistibile e i ritmi colorati ci regalano un live fresco ed esotico.
Nota di demerito: Cigarettes After Sex
C’è un dubbio che si agita forte a vedere dal vivo i Cigarette After Sex, ed è quello che si tratti di una bellissima operazione commerciale di revival di dream pop mescolato a ritmi slowcore e riverberi nella voce del cantante che modificano il suono naturale di quella voce (che è completamente diversa da come la sentiamo). C’è il dubbio cioè che quel loro successo misterioso e sotterraneo, fondato sul passaparola e la rete, sia stato studiato a tavolino, componendo ripetutamente e ossessivamente la stessa canzone, che piace – sia chiaro. Così, se a casa sono piacevoli da ascoltare come soundtrack quotidiana, dal vivo la band di Greg Gonzales risulta mono-tona, mono-corde, mono-maniaca e priva di quel salto in più che ci fa piacere l’esperienza del concerto live. L’effetto è che dopo poco il concerto stanca, e di quei suoni davvero non ne possiamo più.
Nota di merito: Sylvan Esso
Il pop-electro condito di visual che – un po’ come la soia – sta bene su tutto. L’aver suonato dopo i Cigarettes After Sex aiuta.
Tutte le foto sono di Anna Chasovskikh