Ben Frost – Threshold of Faith

Ben Frost - Threshold of Faith

Se uno ci pensa bene, l’accoppiata poteva risultare improbabile solo ad un’analisi superficiale.

Capisco che — nonostante Ben Frost non possa essere propriamente considerato il perfetto esponente della cosiddetta club culture — decidere di mettere il suo lavoro nelle mani di colui che — rispondendo con un bel “me ne frego” alla richiesta di Powell di poter utilizzare un campione vocale tratto da un live dei Big Black in un suo pezzo — aveva dichiarato senza mezzi termini “I’ve always hated mechanized dance music, its stupid simplicity. […] I detest club culture as deeply as I detest anything on earth.”, non sia sembrata ai più un’idea così geniale. O quantomeno, volendola vedere dal lato più prevenuto — quello da dove, è ben noto, si fa peccato ma spesso ci si azzecca — una forma di sfida, forse di provocazione più o meno consapevole, a se stesso prima ancora che nei confronti di altri.

Ribaltando la soggettiva, qualcuno potrebbe sottolineare il fatto che Steve Albini di solito produce dozzine di album all’anno, e non è esattamente famoso per essere uno così selettivo nell’accettare o meno le proposte che gli vengono fatte. Tu mi prenoti lo studio di registrazione per un certo numero di giorni, mi paghi, e io ti produco il disco alla mia maniera: devi solo suonare e non preoccuparti di altro. Più o meno funziona così: patti chiari e amicizia corta. In questo senso, che avesse una particolare predilezione a lavorare con Ben Frost o che (estremo opposto dell’infinito range ipotesi) non sapesse nemmeno chi fosse, non farebbe poi questa gran differenza e la questione sarebbe liquidata sul nascere, con buona pace di entrambi e di tutti quelli che si sono scandalizzati (o eccitati) alla notizia della combo.

Se però vogliamo un attimo andare più a fondo del semplice livello gossip e provare a ipotizzare le ragioni che hanno portato alla liason più crossover dell’anno, tentando così di capire come catalogarla — se alla voce “matrimoni di interesse” o nella categoria “corrispondenze d’amorosi sensi” — dobbiamo secondo me affrontare la cosa da una visuale meno ristretta.

La musica di Ben Frost è sempre suonata in qualche modo urgente. Non è una cosa facile da ottenere quando hai scelto come campo d’azione una certa elettronica astratta, vagamente pesante, ma sempre riconducibile dentro il cono d’ombra generato dalla definizione di soundscape, eppure il producer australiano ha sempre mantenuto — anche nei passaggi più caotici e tormentati — uno strano legame con qualcosa di umano: in mezzo al terrore e alla violenza meccanica che le suo composizioni spesso ti proiettano addosso, ogni volta, inevitabilmente, non puoi fare a meno di intravedere un fragile cuore pulsante che pompa sangue vero dal centro di un grumo di beat fino alla periferia delle sue macchine da battaglia. Ha un approccio organico, quasi carnale, all’elettronica dark-ambient ed è proprio quando pensi alla sua ossessione per la componente fisica del suono — la sua presenza, la sua profondità, il suo impatto — che l’abbinamento con il fondatore degli Shellac inizia a prendere senso, a sembrare meno bizzarro, quasi naturale. Sì, perché Steve Albini — sia come ingegnere del suono che come musicista — è l’evangelista più convinto, il missionario in prima linea, l’integralista più fanatico di quella purezza armonica, nuda e cruda, così come esce dall’attrezzo che l’ha generata, sia essa una corda, una pelle, una bocca, un amplificatore. O un computer.

Più interessante la partita che si sarebbe potenzialmente giocata sul piano della contaminazione sonora, la roulette dei pronostici riguardo se e in quanto tempo la strana coppia sarebbe riuscita a convergere, partendo da posizioni differenti, in un ibrido uomo-macchina dalle componenti originali vagamente irriconoscibili. In altri termini: come avrebbe reagito l’immaginario di Frost — che, in linea del tutto teorica, potrebbe anche decidere di esistere solo e soltanto in un’ambientazione esclusivamente digitale — una volta catturato dai microfoni vintage di Albini, riversato sui suoi nastri e chirurgicamente inciso dalle sue lamette?

L’inizio è tutto di marca Electrical Audio: i sette secondi di apertura delle title-track infatti sono tutt’altro che puro silenzio. Se si ascolta con attenzione si può udire in sottofondo, a volume bassissimo, il sound engineer californiano mormorare “We’re rolling.” Sembra un’inezia, ma è una cosa che quasi mai succede in un disco di musica elettronica. Avete per caso sentito un pezzo degli Autechre preceduto dal “quattro” dato con le bacchette da un batterista fantasma? O un brano di Squarepusher introdotto da Tom Jenkinson che grida nel microfono: “One-Two… One-Two-Three-Four!” Ovviamente no. È una cosa che ti aspetteresti in un disco punk o rock, quella specie di sporcizia autoindulgente che suona quantomeno straniante come primo statement della nuova release di un artista dalla reputazione digitalmente immacolata come Ben Frost. Eppure — cambiando ancora una volta punto di vista — è una cosa estremamente “Steve Albini”, una specie di trademark, un modo di dire: ci sono, ho la situazione in pugno, fate attenzione perchè sto per lasciare il guinzaglio e liberare un barbuto e rarissimo esemplare di guru sintetico proveniente dalla lontana Australia, ma ormai felicemente trapiantato nell’altrettanto isolata Islanda. In pratica la versione noise-core di un documentario del National Geographic, ma con meno inquadrature strette sui baffi degli animali.

Sette secondi, giusto sette. Perchè una volta tolta la museruola nessuno può più ignorare l’assalto barcollante di quella cascata di synth tipicamente “benfrostiana” che con ritmo cadenzato si gonfia e si frantuma a intervalli regolari fino a esplodere sul finale in quella che assomiglia molto alla colonna sonora di un’apocalisse più o meno privata. Come per una valanga che ormai si è staccata ed è già inarrestabile, dopo pochi minuti risulta del tutto indistinguibile capire come il tutto sia stato registrato, composto, creato, se provenga da un mondo testardo e analogico o se sia stato programmato con perizia in un qualche anfratto di quello spazio infinito che va sotto il nome di software automation. Albini riprova a metterci la faccia e a riaffiorare in superficie per un attimo, auto-citandonsi nella dilatatissima All That You Love Will Be Eviscerated (Albini Swing Version) che — ma guarda un po’ — non ha niente di swing ma assomiglia piuttosto al testamento di un Sakamoto malato terminale e che precede la versione gemella remixata dal DJ queer afroamericano Lotic, le cui percussioni si riveleranno alla fine le uniche parti di batteria reali dell’EP.

Equidistante dall’aristocratica ricerca di A U R O R A così come della furia cieca di By The Throat, Threshold of Faith, con i suoi 27 minuti di durata, è un antipasto abbondante che sicuramente segnerà un bivio nelle scelte sonore di Ben Frost, ma che ancora gioca a nascondino riguardo alla direzione che ha deciso di prendere. Alcuni passaggi fanno immaginare cosa potrebbero diventare i Godspeed You! Black Emperor se sostituissero le chitarre di Efrim Menuk e Mike Moya con i peggiori droni di Tim Hecker, altri suonano come se Clark rivoltasse nella tomba i Telefon Tel-Aviv, altri ancora sembrano usciti dalla testa di un Jóhann Jóhannsson ha cui hanno commissionato una soundtrack sequestrandogli però prima tutti gli strumenti ad arco.

In ogni caso, per non sbagliare, i due si sono attenuti alla regola aurea “melius abundare quam deficere”: la sessione con Albini pare infatti abbia prodotto più di due ore di registrazioni. Quindi aspettiamoci a breve la portata principale del menu e speriamo che nel frattempo l’acquolina che abbiamo in bocca non si sia seccata: perchè in questo momento lo stomaco è stuzzicato a dovere e se tutto va come deve andare magari rimane pure spazio per il dessert.

Exit mobile version