Abbiamo aspettato quattro anni l’atteso ritorno dei Beirut e di quelle atmosfere balcaniche che dal 2006 ci accompagnano durante lunghi viaggi o brevi fughe, ma oggi possiamo finalmente smettere di rincorrere gli amici a cui avevamo prestato The Gulag Orkestar l’estate della maturità o quelli che ci devono ancora “masterizzare” The Rip Tide. I Beirut sono tornati con No No No, il quarto album della formazione guidata da Zach Condon, mente e braccio di un progetto che ormai sta per compiere dieci anni. Le nove tracce di quest’album nascono in seguito a uno dei periodi meno felici di Condon che, non ancora trentenne, si è trovato ad affrontare una grave depressione provocata dalla fine del matrimonio con la fotografa Kristianna Smith.
In modo semplice e immediato il cantautore originario del Nuovo Messico racconta la caduta e la lenta risalita avvenuta grazie anche alla nascita di nuovo amore. Nelle parole di questo disco c’è infatti il dolore per un capitolo che si conclude, ma anche il desiderio di tornare a camminare sulle proprie gambe e di trovare nuovi spunti sonori. Gibraltar, primo brano e secondo singolo estratto da No No No è potenzialmente catchy, ma il risultato complessivo non soddisfa. Le dita del batterista Nick Petree iniziano a percuotere energicamente i bonghi e le note fluttuano veloci fino a quando Zach Condon comincia a eseguire con estremo rigore e compostezza la sua parte canora.
Se da questa traccia non traspare quasi emozione, il singolo che dà nome alla raccolta è la dimostrazione che l’anima nomade dei Beirut non è svanita. Un organetto e una voce carezzevole si combinano per entrare in testa e non uscire più. Si tratta però di un’eccezione rispetto agli altri episodi dell’album, è sufficiente ascoltare August Holland, monotona e senza vie di fuga così come la melodia snervante di Pacheco che sembra non decollare mai. Se amavate gli impulsi creativi dei Beirut preparatevi a un disco decisamente più lento, adatto a situazioni riflessive e all’ingresso nella stagione fredda. At Once ne è l’esempio più lampante, uno dei brani più eleganti e meglio concepiti: una danza in punta di piedi appesa a un ritmo scandito senza fretta.
La strumentale e incantevole As Needed fa acquistare punti grazie alla sua semplicità fatta di archi, piano e batteria, ma la vivace e incompiuta Perth ne fa perdere. I Beirut giocano molto con le emozioni, lo hanno sempre fatto, ma sembra che abbiano dimenticato come si fa a rievocare il passato. L’America di The Rip Tide, la Francia di The Flying Club Cup e i Balcani di The Gulag Orkestar sapevano toccare il cuore e smuovere le viscere anche perché parlavano di un tempo e di un mondo sbiadito, che ci piaceva ancora poter sfiorare almeno in cartolina. Lo spazio di No No No è, invece, quello della ricostruzione, ma è troppo presto per capire quale sia la direzione che Zach Condon, Nick Petree e Paul Collins percorreranno.
Condon avrebbe potuto sicuramente osare di più, ma è apprezzabile il tentativo di non cristallizzarsi negli stessi generi e di sperimentare, cercando nuove vie, suoni e ispirazioni. D’altronde non ci sarebbero i Beirut se ogni disco non fosse vissuto come un diario di bordo su cui incollare istantanee di luoghi lontanissimi e inesplorati, ma non possiamo non ammettere che la struggente e insieme liberatoria malinconia di Elephant Gun un po’ ci manca.
4AD, 2015