Beirut – Gallipoli

Innamorarsi di nuovo, seppur nei ricordi, di quanto già vissuto. Creando una personalissima macchina del tempo per risentire quel calpestio sulla terra, quel cigolio delle finestre e quel vento tra i vicoletti, al calore tiepido del sole già troppo lontano. Un antidoto alla nostalgia, o forse solo la fame di voler dare immortalità a un’esperienza rimasta impressa sotto la pelle. Ma i Beirut sono riusciti a fare entrambe le cose, in ogni nota di tromba, di ukulele, di flicorni, di mandolini, di fisarmoniche, di voce e soprattutto del vecchio organo Farfisa, quello di Gulag Orkestar e di The Flying club cup – «Iniziai a scrivere i primi brani di Gallipoli su quell’organo, nel tardo 2016, quando l’inverno stava per iniziare» – ma anche di silenzio, riuscendo a rinchiudere nel loro quinto lavoro, così artigianale quanto elaborato, quello sguardo sognante su un mondo che, neanche per chi lo vive ogni giorno, esiste più.

Gallipoli, un’ode alla cittadina pugliese a pochi chilometri dallo studio Sudestudio in cui è stato registrato dopo una prima fase tra New York e Berlino, è un album epifanico che, uscito per 4AD ha fatto riconoscere l’anima della band nata dalla mente visionaria e prodigiosa – come molti gli attribuiscono – di Zachary Francis Condon. L’artista poco più che trentenne che stupì con la capacità di destabilizzare i concetti tradizionali del folk ma che sembrava essersi offuscato tra i bagliori del synth-pop.


Il genuino stupore è invece tornato nelle dodici tracce del disco che, con un approccio coerente e mai fuori dalle righe seppur in alcuni passaggi ripetitivo, accompagna in un viaggio tra i luoghi e i tempi, fermandosi con tre lunghi brani strumentali a riprender fiato. E come fece allora quando, 17enne, tornò dal suo primo viaggio in Europa e scrisse Gulag Orkestar, anche oggi fa seguire il tentativo di ricrearlo sullo spartito. Così c’è la campagna salentina, le rocce tedesche, le acque chiare greche e la voglia di perdersi in ognuno di esse. Senza inizio o fine.

«When I die, I want to travel light», sono le prime parole di Zack che canta in When I die. Lo racconta subito che si tratterà di lasciarsi andare, se non con il corpo almeno con la mente, e assicura «I’m fine / I’ll become a different kind / all this distance here». Una distanza che in Gallipoli colma con gli strumenti – di qualunque tipo dopo l’infortunio al polso da giovane che gli impedisce di imbracciare la chitarra per troppo tempo – con la voce spesso esiliata a fare da cornice.

Perché il suono può essere totalizzante, come accade per la title-track, nata ad album praticamente finito. È bastato ritrovarsi nel borgo medievale di Gallipoli nel bel mezzo della processione di Santa Cristina, per essere folgorato da quelle atmosfere retrò e solenni che solo uno sguardo nuovo può cogliere. Così già dall’intro lo si immagina mentre arriva al tramonto in paese e salta con lo sguardo entusiasta dalle luci dei lumini alle cupe velette delle donne, fino agli strumenti dorati della banda che si riflettono nelle finestre di chi assiste e negli occhi dei bambini festosi. Bastano le note per regalare il film, prima ancora di iniziare a cantare.

«Il giorno seguente scrissi il brano in una sola sessione, facendo pausa solo per mangiare -, ammette Zack – sembrava un mix catartico di tutti i vecchi e nuovi album e mi sembrava di essere tornato alla vecchia gioia della musica come esperienza viscerale». Si sente nella foga entusiastica dei crescenti di fiati che annunciano la canzone. E quella voracità nel disco è chiara. Non istinto. Anzi la ricerca di riportare anche oltreoceano quella danza di tradizioni ed emozioni, rendendolo completo anche senza contesto. «You’re so fair to behold», sospira a quella Gallipoli che tanto di superbo ha rispetto alla sua percezione odierna, di sola fonte di divertimento.

Con Varieties of Exile quella solennità si scioglie in un gioco di armonie, stile ballad, da ritmi a tratti hawaiani, tra ukulele e simil noci di cocco. E a un tratto il giro del mondo è fatto fino alla strumentale On Mainau Island che, quasi gracchiando, riporta a terra. Ti chiedi se sia sbagliata, una breve parentesi di punti interrogativi, di collage di suoni che lascia un po’ incerti ma a mo’ di carosello apre un nuovo capitolo del lavoro, intenso anche se in alcuni passaggi monotono.

Con I giardini tornano i suoni, il pianoforte regna rispetto agli altri strumenti, anche se le maracas dirigono, ma su tutto, a differenza di quanto annunciato, vince la voce, pesante, profonda, forse anche troppo. Triste. Come un macigno quando si domanda «What ghost has led me through to here / what clock will beat against the stairs». Il vigore torna con Gauze fur Zah, che richiama le prime sonorità dei Beirut, e con Corfu ma è con Landslide, altro singolo estratto del disco, che torna l’apice e la prova della maturità raggiunta. «I should really behold/my world washed clear by stone».

E poi si tira dritto tra il tempo fino al gran finale – per quanto sia solo il penultimo brano – dell’album We never lived here, con elettronica e trombe, con voce ed echi. E in quel «we never lived here at all/though I stand somehow tall» prende forma la nostalgia. Di rivivere un istante, sapendo che è scaduto, cullandosi nel ricordo. E il desiderio di tornare, su quegli scogli, tra quelle onde, in quel giochi di luce del borgo medievale durante la processione del santo patrono. Sapendo che non sarà e non sarai mai uguale. Ed è questo a renderlo ancora (più) perfetto.


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