Nello spettacolo dei Beach House, l’immanenza di Once Twice Melody

beach house once twice melody

Per molte ragioni i Beach House e Once Twice Melody sono, probabilmente, raccontabili solo nei modi in cui si fa con uno spettacolo che, dal primo momento in cui si apre il sipario fino alla sua chiusura definitiva, ridisegna lo spazio, producendo un disvelamento e un’immersione in una realtà fatta di evidenze incomprensibili e, a tratti, immutabili.

I quattro atti che compongono questo disco, usciti in anticipo come stuzzicanti amuse-bouche prima di poter gustare il pasto completo, più che rappresentare un tempo di lettura o una consequenzialità, suggerita dai titoli come in una fuga polifonica, trasmettono un tempo di tipo interiore e mutevole che si modula sempre in nuovi incastri. Fenomenale in linea retta, magico in shuffle, Once Twice Melody si rapporta al suono dispiegando le ampie vele di loop, distorsioni, drums e bassi mai in eccesso, lasciando che si gonfi e si dilati, acceleri oppure si fermi, facendosi delicatamente guidare dal synth o dalle chitarre, prima di incontrare e celebrarsi nella voce di Legrand. Qui a comporre l’armonia è un tratto sicuro che può cambiare volto, spaziare nel dream, nell’acid, nel lofi, senza perdere ragione ma, anzi, riprodursi costantemente in sempre nuove realtà, sempre ordinate, sempre coerenti fra loro e intenzionate a produrre un momento estatico e penetrante in chi le ascolta.

 

 

È in qualche modo il concetto di musica da camera, privata della sua severa razionalità, in cui i Beach House introducono la propria variante, radicandosi sui legami distintivi dei suoni fra loro, pur sempre minimi, riservati, religiosi nell’uso massiccio dell’organo o tonanti nel martello psych di Only you know. Il completamento si trova nelle sue forzature, nelle microscopiche disparità di bpm, nella modulazione della voce e nelle tonalità in cui vengono pronunciate le parole. Se il suono si disvela, così fa infatti Legrand, suonando ancora una volta come uno strumento puro (si veda il compressore in Runaway), in quel mondo raccolto e chiuso che viene ogni volta aperto e scardinato, narratrice e contemporaneamente parte della musica stessa. Dentro, allora, c’è una poetica dell’improvviso e dell’ulteriore con cui i Beach House sono in grado di riprodurre una tensione melancolica ma mai così viva e densa come questa volta (What everybody knows / Not everybody shows / You caught me looking over / Tears were in your eyes / What cuts you, makes you bolder / Could you read my mind? canta in ESP, grande perla dell’album). Mai così intenzionati a realizzare una grande opera in 18 parti, queste sì, che a ricostruirle singolarmente sarebbe impossibile i Beach House realizzano un maxicosmo di pezzi selezionabili e vivisezionati, che si contraggano in se stessi per dare spazio alla rapsodica Masquerade, alla funebricità di Many Nights o al circolare ritorno delle realtà in Another Go Around senza che l’esplicabile si trovi o assumi una forma che non venga trasformata nel passaggio seguente.

Non generi, quindi, ma un grande filone romantico in grado di restituire il carattere molteplice e sfuggente della poetica, di raccontare l’ineffabile e produrre un effetto non più solo sonoro e o sognante, ma fisico, in cui toracico diventa risonante, gli ascoltatori e i muri in cui siamo stati rinchiusi (e in cui Once Twice Melody nasce) un grande palco che attende solo di potersi aprire.

Once Twice Melody è in qualche modo un disco da osservare attraverso le sue relazioni, gli intrecci e le strutture del grande teatro che lo circonda. È immanente, come la bellezza struggente di chi, essendone privo, non può che ammirarla.

 

 

Exit mobile version