Esiste in medicina del sonno una condizione patologica nota come paralisi ipnagogica.
Per farla breve, si tratta di un disturbo che costringe chi ne è affetto ad avere il corpo letteralmente intrappolato nel sonno pur avendo la mente sveglia a tutti gli effetti; la condizione di contrasto tra mente e corpo che si viene a creare genera nel malcapitato uno stato di malessere importante, lo stesso malessere che ispirò Johann Heinrich Füssli per il suo celebre dipinto L’incubo.
Questa breve parentesi medico-artistica mi è fondamentale per parlare di Depression Cherry, nuovo ed attesissimo disco dei Beach House, il duo di Baltimora che con il precedente (capolavoro per chi scrive) Bloom si confermavano alfieri di un suono dream pop che fu di certo una delle cifre del 2012 musicale.
Da allora, fatta eccezione per la partecipazione con Saturn song alla bella compilation The Space Project, avevano fatto sparire le loro tracce dalla scena musicale fino all’annuncio di un “ritorno alla semplicità” in rottura con i precedenti Bloom e Teen Dream.
Ed il punto forse è proprio questo.
Depression Cherry si apre con il suono a cui siamo abituati (Levitation) solo che si assiste ad una cosa a cui chi segue i Beach House non è abituato: sul protrarsi eccessivo di una strofa alquanto monotona, la voce di Victoria Lagrand risulta stranamente monocorde; stesso abuso di ripetizioni che un po’ vena anche altri pezzi come PPP e la dilatatissima e conclusiva Days of Candy. Questa prolissa ripetitività è in effetti lo scotto che il duo paga nella tecnica compositiva usata per questo loro quinto lavoro visto quanto dichiarato prima dell’uscita dallo stesso Alex Scally: “Trance is a big part of our thing, we’ll repeat a part for three hours while we wait for the next piece to fall into place.“.
Pezzi come il primo singolo Sparks , ma anche Beyond Love, sono quelli in cui meglio si capisce la voglia di rottura di questo disco: il contrasto che si crea tra la voce algida della franco-americana ed il riff di chitarra distorta ed acida alla maniera shoegaze fa assistere ad un effettivo ritorno alle origini del genere (c’è chi ci ha visto molto degli Slowdive), non senza generare qualche stridore eccessivamente dissonante che finisce con l’appiattire un po’ quella tridimensionalità che è stata fin qui la chiave del dream pop made in Baltimora.
Ci sono anche pezzi in cui l’intento riesce senza però perdere quanto di buono il duo aveva ottenuto sin qui e in pezzi come Wildflower o Space Song (il pezzo che mi è piaciuto di più), il suono con i suoi riverberi torna ad essere quello che, pur semplificato, crea i paesaggi sonori in cui la voce suadente canta di cuori infranti “Tender is the night for a broken heart, Who will dry your eyes when it falls apart?“; stessa cosa in pezzi come Bluebird e 10:35 dove il fatto di trovarcisi di fronte a momenti di sola voce e drum machine non evita che si creino le atmosfere sognanti a cui ci hanno abituati.
Depression Cherry è senza dubbio una delle uscite più attese di quest’anno, ma sembra non aggiungere nulla di sostanziale a quanto detto finora dai due di Baltimora. Se da un lato sembra esserci una voglia di rottura col passato, dall’altro si assiste all’incapacità di andare avanti, un po’ come chi si trovi affetto dalla paralisi ipnagogica tenta in ogni modo di svegliarsi riuscendo ad emettere solo labili rantoli.
Bella Union/Sub Pop, 2015