Baustelle – L’amore e la violenza

Con l’eccezionale partecipazione di Alberto Bullado


Una decina d’anni fa, non era molto che vivevo a Roma, origliando una conversazione ad un concerto sul pratino della Sapienza, tra un sedicente esperto (diceva di scrivere su zero6) ed una tizia discinta ma piuttosto annoiata dall’interlocutore, sentii per la prima volta il termine IndiePop.
La cosa lì per lì mi suonò molto stonata tanto da distrarre la mia attenzione dalla tipa summenzionata, ma facendo mente locale sui toni tutt’altro che convenzionali del gruppo che stavo ascoltando e sul fatto che l’estate prima avessero suonato al Festivalbar, in effetti non ci trovai nulla da ridire e ripresi a godermi l’arrivo dello Ye Ye.

Erano i Baustelle da Montepulciano (SI), e quell’anno misero in scena una mezza rivoluzione per i fruitori di musica “alternativa”. Già, perché dopo anni di rock pur et dur, accenni di gioventù sonica, musica strumentale e chi più ne ha più ne metta, finalmente non ci si doveva più vergognare di canticchiare un ritornello. Beninteso, il ritornello in questione era fatto di un lessico forbito, continui rimandi letterari e sopratutto un colto e nichilista sarcasmo, ma al contempo risultava deliziosamente fresco e piacevole. Puro decadentismo pop.

Ma questo accadeva una decina d’anni fa ed i Baustelle erano al terzo disco.

È di questi giorni l’uscita del settimo disco dei toscani (ormai già da tempo sono un trio) L’amore e la violenza.

Nel frattempo Francesco Bianconi è diventato un affermato scrittore di testi per sé e per altri e Rachele Bastreghi ha anche tentato (accolta da pareri divergenti) la via solista; a partire da quella “mezza rivoluzione” di cui sopra, poi, è nata per gemmazione tutta una generazione di cantautori colti o sedicenti tali che hanno fatto di quel sarcasmo e di quell’ironia un vessillo (e questo non è stato necessariamente un bene).

Per queste ed altre ragioni si fa un gran parlare di un disco che riprende già nel titolo i temi cari al gruppo.

Dopo un’entrée dai toni fortemente barocchi ci si ritrova, con Il Vangelo di Giovanni, subito un pezzo che dichiara senza mezzi termini quello che sarà il disco.
Synth à la Battiato de La Voce del Padrone, voci all’unisono che dipingono immagini contemporanee utilizzando un intreccio tematico di macrocosmo e microcosmo e l’immancabile ritornello: dopo che i lavori precedenti s’erano fatti via via più pretenziosi (ma non per questo meglio riusciti), siamo di nuovo di fronte ad un altro disco pop.

Il singolone radiofonico Amanda Lear, evocativo già nel titolo, con il suo ritornello ammiccante cantato dalla Bastreghi (“Il lato A, il lato B…”) ne è una ulteriore conferma.

Questo però non faccia pensare ad una faciloneria da tanto al chilo. Tutt’altro.
La murder balld Betty (mancata title-track) mostra in pieno la vena decadente che scorre sempre sotto traccia in questo disco. Sembra quasi di trovarsi di fronte alla Betty Tossica (Prozac +) di qualche anno fa, cresciuta tragicamente e finalmente terminata (“Prima ancora di soffrire, era già in putrefazione, un bellissimo mattino, senza alcun dolore).

Dicevo prima di una compresenza di microcosmo e macrocosmo. Un po’ come in un romanzo storico, le piccole vicende intime narrate avvengono sullo sfondo dei grandi avvenimenti internazionali e così in Eurofestival (altro pezzo con fortissime reminiscenze di Battiato)“la guerra avanza…mentre passa l’ultima canzone all’Eurofestival e il nostro amore è ai titoli di coda” il tutto mentre un Bianconi, novello Tenco in crisi, chiede a gran voce di ritirarsi da un festival in cui non vuol più cantare.
Il mondo fuori esiste solo come vettore di ulteriori ansie.

Ma il disco, lo dicevo prima, è sostanzialmente un disco pop e la sua forza sta proprio nel fatto che, sia nelle sfumature synth di Basso e batteria, sia nei richiami a certa discomusic anni ’70 (gli altri due pezzi candidati, visti i ritornelli da hit parade, a diventare singoli, Musica sinfonica e L’era dell’acquario, ma anche, l’intermezzo Continental Stomp che sembra un pezzo dei Justice) lo dichiara senza nascondersi.

Restano i due pezzi (La Vita e Ragazzina) più cantautoriali che con gli arrangiamenti semplici danno giustizia al songwriting maturo di Bianconi, che affida ad un’eco del Dylan di Desolation Row  la chiusura del disco.

Menzione a parte mi sento di fare per quello che considero il vero gioiello de L’amore e la violenza: Lepidoptera.
Torna infatti l’amore dei Baustelle per le creature notturne, questa volta una falena “di luce drogata“.
Il lepidottero è annunciato da un synth che ne imita splendidamente la frenesia dell’ipnotico battere d’ali, ma poi coll’incedere del brano piano piano lascia il passo ad un arrangiamento di fiati che si apre in una trionfale ammissione di attaccamento alla vita, liberatoria come l’arrivo di un’alba.

Con il loro settimo lavoro, i Baustelle ritrovano finalmente la loro vocazione originale, quel genere che il tizio di cui sopra definiva Indiepop, ma che per il sottoscritto è semplicemente pop cantautoriale.
La freschezza dei primi tre dischi sembra essere cosa passata, ma la maturità stilistica raggiunta dai toscani riesce a rendere l’album ancora una volta piacevole.

Insomma forse non un capolavoro assoluto, ma permettete che preferisca che passino in radio Amanda Lear al posto di Rovazzi?


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