William Basinski + Lawrence English – Selva Oscura

Più che definirla come “strana coppia”, sarebbe forse opportuno parlare di “coppia di strani”, visto che, nella loro eccentricità e particolarità, William Basinski e Lawrence English formano un duo veramente bene assortito. Il primo è una sorta di leggenda nell’alveo dell’ambient music, un poeta naif dell’avanguardia che ama avere l’aspetto e vestire i panni di una rockstar, il secondo è un vero e proprio scienziato del suono, metodico ed accurato nel suo lavoro di ricerca della natura dell’ascolto e della capacità del suono di occupare i corpi. Entrambi, nel corso dell’ultimo decennio, hanno partecipato ad una serie di eventi in giro per il mondo (Zagabria, Los Angeles e Hobart, per citare alcune location) e, mantenendo un contatto regolare, hanno partorito l’idea di Selva Oscura proprio a partire da questi incontri di vite “vissute in transito”.

Ne è scaturito un LP a due tracce, registrato in contemporanea tra Australia e Stati Uniti e “creato attraverso un processo di interazione e di riarrangiamento che ha invertito le caratteristiche micro e macro dei materiali sonici grezzi”. L’evidente riferimento del titolo dell’album all’opera dantesca ha un duplice livello di lettura: in primis è chiara metafora delle vite erranti dei due artisti, ad un livello più profondo ci insegna invece come smarrire la propria strada e il proprio tempo, immergendosi nel flusso disorientante di una musica ultraterrena. Partendo, infatti, da filamenti di suoni grezzi e parcellizzati, spediti di continuo da un capo all’altro del mondo in una sorta di “lavoro a quattro mani a distanza”, pian piano è stato tessuto un ampio arazzo composto da sonorità psichiche in continuo movimento, abili nel non concedere punti di riferimento.

La musica di Selva Oscura non è dunque mai ferma, ma si dispiega per mezzo di un drone che le dà voce verso una deriva indefinita. La sensazione che aleggia costante è quella di un’incertezza che non sparisce, ma che, anzi, a lungo andare diviene essa stessa l’unica àncora sicura a cui aggrapparsi. Le onde sonore che si propagano nella title track salgono di intensità ad una velocità impercettibile, sempre meticolosamente controllate, mentre danno forma ad un mondo senza limiti in cui perdersi è tanto inevitabile quanto paradossalmente tranquillizzante. Per i primi sette minuti circa, la traccia prosegue ininterrotta come una notte su di una strada aperta, smossa solo da alcuni assordanti echi in lontananza. Poi il suono di un universo appena schiusosi si apre alle orecchie di chi ascolta: luccicante in un’atmosfera priva di peso e pregno al tempo stesso di una densa ineluttabilità. Il ritmo silenzioso si rompe come d’incanto in un enunciato di confermata incertezza.

L’altra traccia, Mono No Aware (concetto estetico giapponese che esprime una forte partecipazione emotiva nei confronti della bellezza della natura e della vita), ha una forza evocativa forse maggiore, nel suo proporsi come opera accattivante e quasi onirica. I toni sferici e dal basso ampio sembrano voler cullare le menti in uno stato di malinconia lussureggiante, come se le nuvole si fossero invece qui rialzate. Ma anche in questo caso l’effetto è illusorio e non vi è sicurezza alcuna nel susseguirsi degli eventi: la verità si sostanzia nell’arrendersi al freddo abbraccio dell’ignoto, lasciandosi trasportare –inermi- di cambiamento in cambiamento. Qualunque sia la scelta o la ragione, i suoni più forti disturbano la regolarità e il conforto e gli slanci improvvisi sono immediatamente smorzati da droni perpetui. E’ una musica che sembra essere fuori dal tempo, incapace di essere datata. Illuminato da un sole buio, ci troviamo al cospetto di un lavoro di design musicale minimale, tremendamente affascinante: un occhio che dallo spioncino sbircia un frammento di infinito.

 

 

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