Fresco di uscita e di Oscar, Barriere è l’ennesimo film nero di una stagione particolarmente carica di rivendicazioni, di lotta per i diritti e premi spesso più impregnati di una logica politica che di un reale merito alla bravura. Certo, non è il caso dell’unica statuetta che, delle quattro categorie a cui era stato candidato, Viola Davis è riuscita a strappare per il suo ruolo in questa pellicola.
Denzel Washington mette in scena in Barriere, trasposizione cinematografica di una pièce teatrale del 1983 (vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia), le vicende di una famiglia di colore nella Pennsylvania degli anni ’50, in uno snodo storico decisivo in cui la comunità di colore riusciva ad alzare per la prima volta la testa, nonostante per qualcuno fosse già troppo tardi. E non doveva neanche esserci un troppo presto. In questo caso, quel qualcuno è proprio il protagonista: Tony Maxton, interpretato da Denzel Washington; uomo carismatico, padre responsabile, duro lavoratore, giocatore di Baseball mancato. Un passato di ben altre ambizioni che aleggia in modo permanente nella vita del personaggio di Denzel Washington che fa dello sport stesso metafora ossessiva della vita, costretto a portare avanti una vita fantasma, non infelice, ma dalle aspettative notevolmente ridimensionate; a farsi carico di tutte le responsabilità che l’essere padre di famiglia comporta, fino a dimenticare se stesso. Racchiuso nello steccato di un cortile non ancora costruito, ma che la moglie delicata e devota, interpreta da una degnissima Viola Davis, gli ha espressamente richiesto. Non per proteggere dall’esterno, ma per tenere dentro. Per confinare una realtà a cui si è appoggiata e che potrebbe sfuggirgli di mano. Dal marito dal temperamento straripante, ai sogni di un figlio identici a quelli del padre, ma di una concretezza più raggiungibile.
Barriere è infatti, quasi nella sua interezza, girato all’interno dell’umile dimora Maxson, messa su grazie ai guadagni del puntuale e umile lavoro di Tony come spazzino, e del cortile retrostante, dove non possono mancare palla e mazza dello sport prediletto. La natura teatrale dell’opera si intuisce facilmente, anche per gli spettatori ignari delle sue origini. I personaggi entrano ed escono dalla scena con ritmi alternati e teatrali: conquistandola prepotentemente come Denzel Washington, col suo fisico invecchiato e appesantito perfettamente in sincronia con lo spirito stanco del suo personaggio; chi facendo da degno sostegno alle battute del primo, in un contraddittorio impari ma necessario per tamponare i suoi istinti; chi semplicemente di passaggio, pretesto a spunti di narrazione ed evoluzione degli eventi. La pellicola si autocostruisce, tassello per tassello, in uno spezzato spaziale che resta sempre identico a se stesso, ma nel quale, inevitabilmente tutto si straccia, cambia, rallenta.
Il puzzle, però, non si conclude mai: l’esterno resta assente, ma di una mancanza pesante e insopportabile come un personaggio del tutto vivo, quasi cosciente di sé, vivido. Richiamato, infatti, solo da riferimenti a dinamiche lì collocate, fuori, ma cruciali per gli eventi. Nella seconda parte del film, il tanto volutamente preservato focolare domestico implode; a nulla sono valsi i tentativi e il dedito e cieco supporto della moglie, e il film si snaturalizza. Perde di vigore e forza dei dialoghi che sbaragliano il suo incipit e il suo incedere si smorza seguendo il protagonista nel suo chinare la testa di fronte agli errori commessi, ingiustificabili e imperdonabili, ma figli di una crescita distorta e repressa; umani.
Barriere, senza guardare al colore della pelle, azione che, mossi da intenzioni positive o meno, si fa anche troppo spesso, pronti a far di un film bandiera di diritti o sminuirne i riconoscimenti per motivi legati alla contemporaneità di turno, porta avanti prima di tutto il racconto di una famiglia, in modo onesto e appassionato. L’influenza di fattori che trovano radici nel contesto storico-sociali è poi semplice, inevitabile, ma il tutto resta sfondo, scenografia, come foto di politici appesi al muro, a cui si rivolge velocemente lo sguardo prima di tornare alla vita, che è una, del singolo, sempre individuale prima che intrecciata. E il padre di questo progetto cinematografico dimostra tutto il suo desiderio di realizzazione dello stesso con un occhio fortemente attento e amorevole, deciso ad indirizzare con fare sicuro, senza rischi; guardare al passato che prima di essere il vecchio da rinnovare, è una lezione, non da seguire in modo accademico e spersonalizzato, ma da cui imparare sempre. Il film di Washington, alla terza prova da regista, è proprio il giusto figlio che cammina nel classico pur rivelando tutte le sue imperfezioni in un cammino in cui si procede a tentoni, ma è nel percorso che si ci riconosce, prima di essere riconosciuti, ed è a casa che si può sempre fare ritorno.