Sono della limitrofa Piacenza e scopro dell’esistenza del Barezzi solo alla sua nona edizione. Parma è una città che nonostante la vicinanza, conosco poco. Una vicina di casa che vedo come un po’ più grande, un po’ più cool e forse con qualche possibilità in più rispetto alla mia città d’origine per creare una partecipazione culturale diffusa.
Antonio Barezzi era un piccolo produttore di liquori dall’animo mecenatesco che aiutò Giuseppe Verdi a coltivare la propria passione per la musica. Barezzi oltre a fare l’imprenditore suonava anche il flauto come dilettante e i due divennero così legati che Verdi ne sposò la figlia.
A questo personaggio chiave per la musica patrimonio culturale italiano ma ancor prima parmense si intitola il festival nato nel 2007. Un appuntamento musicale che negli anni si è proposto di collegare la classica alla leggera. Intendendo per musica leggera quel termine un po’ arcaico per il più comune e “giovane” inglesismo ‘pop’.
Il festival si propone come unione tra i luoghi e le estetiche legati alla musica classica (i teatri in primis) e la spinta innovatrice che muove la contemporaneità. Artisti italiani e non nelle scorse 8 edizioni, tra i quali ne citerò due da tripla A: Herbie Hancock e Franco Battiato.
Molto dolorosamente mi perdo le prime serate (Rufus Wainwright, Levante ma soprattutto James Senese) e arrivo giusto in tempo per una più che rispettabile band di nome Calexico. In aggiunta ovviamente agli altri artisti, che a relegarli ad una posizione di accompagnamento, si fa loro un grosso torto.
Piazza Ghiaia è una piazzetta di fianco al fiume a ridosso del centro. Arrivo per sentire i di Oach, band vicentina composta da quattro membri: due chitarre / voci, una ragazza allo xilofono / tastiere / voce, e un tipo che suona contemporaneamente basso acustico e gran cassa.
Le voci sono armoniche, i suoni caldi e ritmati, con la grancassa del bassista e il tamburello della xilofonista come uniche drums. Mi ricordano vagamente i Kings of Convenience con qualche differenza genuina e tutto sommato originale, me ne vado a concerto finito con la conferma che esistono nello stivale tanti progetti interessanti e quasi sconosciuti degni di essere valorizzati con date importanti.
Attraversiamo il centro recandoci all’auditorium Paganini, disegnato da Renzo Piano all’interno del parco Eridania.
All’interno c’è una coda umana nonostante il sold-out di cui ci informano le maschere. Lo spazio è meraviglioso e ha la capienza di 780 posti a sedere. Ci mettiamo sui gradini per fare qualche foto e Gaby Moreno sale sul palco.
Chi è Gaby Moreno? Non ne avevo idea e il suo nome non era sul programma. Accolgo con molto piacere la notizia che ci sia un’artista d’apertura e quando inizia a cantare ne sono ancora più convinto.
Gaby è una ragazza con indosso un vestitino e un fiore rosso tra i capelli, che se ne sta sul palco con una chitarra e riesce a far venire la pelle d’oca a 780 persone con solo 6 corde + le sue, quelle vocali.
Mi ricorda una Rosalia De Souza acustica e con voce spagnola, suona giri più blueseggianti che alterna a sonorità pop sudamericane, alcuni riff mi riportano molto lateralmente in testa Hendrix. Ad un certo punto fa salire una manciata di membri di quell’esercito che sono i Calexico e si fa accompagnare ne El Sombreron. Un canto tratto da una leggenda guatemalteca, dal suo paese d’origine.
L’acustica è incredibile. Era da un po’ che non mi trovavo ad un concerto in un teatro o auditorium e constato con piacere che quando uno spazio è disegnato appositamente per la musica si sente la differenza. Penso anche che era da un po’ che non andavo ad un concerto in cui non mi controllavano lo zaino, ma d’altronde, è un live da gustare seduti.
Salgono i Calexico e fanno sapere al pubblico che sono molto felici perché è la loro prima volta a Parma (cosa che stupisce fino ad un certo punto visto che sono di Tucson, Arizona).
Il nuovo album funziona bene live, la presenza del synth avvolge a dovere il sound classico della band dando una sonorità leggermente più contemporanea. Il chitarrista è il sosia di Ben Harper e con lui ha in comune la tendenza a girare orizzontalmente la chitarra e suonarla così.
I Calexico ci chiedono di invitarli di nuovo presto a Parma, Joey alla voce ci invita a sua volta a disintossicarci dagli smartphone e a passare del tempo con le nostre famiglie. Ci dice che è l’estate di San Martino, nel mondo anglosassone Indian Summer, e a me ritornano piacevolmente in mente i Doors.
Joey fa salire di nuovo Gaby Moreno che suona con loro Fronteras. Salutando ringraziano il pubblico e per il bis tornano sul palco con Faris Amine (un signore che tra gli altri ha collaborato coi Tinariwen).
Sonorità sahariane, risale Gaby, parte un’improvvisazione collettiva e la platea si alza e improvvisa danze sulle scalinate e tra una poltrona e l’altra. Un caffè al ginseng, un flut di bollicine e ci si sposta di sotto.
L’auditorium è uno spazio incredibilmente bello e versatile e me ne accorgo scendendo nella sala dove si sarebbero svolti il live di Faris e il djset di Marco Pipitone.
L’ambiente è di chiara derivazione club e non è così scontato trovare un club sotto ad un ambiente dove si suona musica classica.
Gin ovunque (a 7 euro al cocktail) fornito dallo sponsor Tangueray #10, brut, rossi, bianchi fermi, birra e crostini ricoperti di caviale. Poi tutti seduti sul pavimento davanti al palco dove sale Faris.
Reduce dall’album Mississipi to Sahara, dove mixa sapientemente il blues alla musica tuareg, produce sonorità molto Tinariwen per un live semplice ma piacevole, in un bell’ambiente e con un pubblico tranquillo ed attento alla musica.
Finito il live parte Pipitone per un djset anticipato come “desertico” e che purtroppo per lui lo è in tutti i sensi, visto che il pubblico in gran parte lascia la sala e se ne torna a casa.
Il bilancio della serata conclusiva del Barezzi è una serie di veloci riflessioni. Non ho visto il Teatro Regio (sulla quale bellezza ho comunque e avevo pochi dubbi) ma per il resto mi sembra che il grande asset del festival sia la versatilità di un luogo come l’auditorium Paganini.
Ho notato una strizzata d’occhio al clubbing per l’estetica dello spazio underground sottostante la sala principale. Però la componente elettronica (oggi imprescindibile se si parla di innovazione?) viene solamente abbozzata.
E’ forse l’idea stessa del Barezzi, parole a parte, a richiederlo. Ritengo però che ci siano molte componenti sonore contemporanee che toccano l’elettronica da vicino e che in aggiunta al repertorio classico fornirebbero al festival quel sapore di nuovo che oggi leghiamo molto piacevolmente al jazz e alla cosiddetta world music.
Una grande iniziativa con un enorme potenziale dunque. Che con una visione artistica un poco più ampia potrebbe aggiungere Parma all’asse Torino-Milano-Bologna-Reggio che fa del nord Italia un luogo non troppo male per scoprire quella (sempre citando il sito) “spinta innovatrice” portata dalle nuove generazioni di musicisti.
(Foto di Chiara Zaniol e Iacopo Pelagatti)