In tutte le interviste, Barbara Kingsolver racconta sempre la stessa versione dei fatti quando le chiedono della genesi di “Demon Copperhead”: lei seduta alla scrivania che fu di Charles Dickens, a Broadstairs, Gran Bretagna, con in mente l’obiettivo di scrivere una grande storia sulla crisi degli oppioidi ambientandola negli Appalachi. Tra il serio e il faceto, Kingsolver ammette di aver girato intorno all’idea per ben due anni, per poi ricevere la spinta definitiva da Dickens stesso che le parla proprio quando è alla sua scrivania: «You let the child tell the story», ovvero lascia che sia il ragazzo a raccontare la storia, proprio come il suo David Copperfield del 1849. Quasi duecento anni dopo, allora, Kingsolver prende in mano gli appunti e, illuminata dal vecchio Charles, comincia a scrivere “Demon Copperhead”, pubblicato nel 2022 negli Stati Uniti, nel 2023 in Italia da Neri Pozza nella traduzione di Laura Prandino, e vincitore del Pulitzer per la narrativa, il Women’s Prize of Fiction e il James Tait Black Memorial Prize. Di fatto, il più importante romanzo dell’ultimo anno.
Il punto di partenza, quindi, è la crisi degli oppioidi, epidemia che ha investito gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni, soprattutto le aree rurali degli Appalachi, catena montuosa che si estende a ridosso della costa atlantica tra il confine col Canada e l’Alabama. Un territorio ricco di risorse naturali sfruttato per decenni prima per il legname, poi con le miniere di carbone, la coltivazione del tabacco, e, per ultimo, teatro della crisi sociale innescata dall’abuso degli oppioidi. Fu chiamata epidemia perché la dipendenza fu il risultato di un atto deliberato, quello della Purdue Pharmaceuticals che “mancò” di informare la popolazione, su cui contava di speculare, del rischio innescato dei proprio prodotti, ovvero farmaci a base di ossicodone, fentanyl, ecc. La dipendenza si innescò dopo che i medici, non consapevoli dei rischi, prescrivevano gli oppioidi per curare dai banali mal di schiena al trattamento dei dolori cronici, motore principale del profitto. Il governo, dal canto suo, per contrastare il fenomeno e giustificare le decine di migliaia di morti puntò sul senso di colpa: la dipendenza dagli oppiodi era sintomo di una debolezza personale e cronica mancanza di volontà da parte dei cittadini. Il risultato fu una strage con decine di migliaia di morti per overdose che cambiarono radicalmente il territorio e la popolazione, creando, di fatto, un’intera generazione di orfane e orfani gestiti con superficialità e indifferenza dai servizi sociali e dalla scuola.
Tra questi orfani c’è Damon Fields, chiamato Demon Copperhead per la testa di capelli rossi, originario della Lee County, Virginia, terra in cui tutti hanno un soprannome. Il primo incontro con Demon avviene proprio alla sua nascita, alla fine degli anni ’80, sul pavimento sporco del bagno di una roulotte, messo al mondo da una madre tossicodipendente appena diciottenne. Nasce «Come un piccolo pugile bluastro», scrive Kingsolver; da lì sarà tutto in salita.
È Demon, quindi, il fulcro del romanzo che porta il suo nome, sia in termini di voce perché è lui a raccontare in prima persona la storia in un lungo flashback, sia perché è simbolo di tutto quello che accade nel cuore rurale degli Stati Uniti, luogo dove il sogno americano è seppellito da un bel po’. Un romanzo sul marcio sistemico del paese, ma che alla fine non rinuncia al sogno americano, seppure con un prezzo altissimo in termini di vite rovinate e funerali.
“Demon Copperhed” è stato definito “The Great Appalachian Novel”, il grande romanzo degli Appalachi, ed è un’opera il cui intento, nelle parole di Kingsolver, è la narrazione di una parte maggioritaria della popolazione statunitense, quella delle aree rurali, ma resa irrilevante dalla miopia generale e dalla legge del profitto capitalista. Kingsolver stessa ha definito in più sedi il territorio degli Appalachi una sorta di colonia all’interno degli Stati Uniti: sfruttata per le risorse e la forza lavoro, depredata delle sue ricchezze da aziende non autoctone e, infine, dimenticata dai media. È proprio per questo che merita di essere raccontata.
La già citata voce di Demon è il dettaglio più prezioso di un romanzo lungo, ben 650 pagine, che non conosce tregua. Una voce che sa intercettare i dettagli di chi lo circonda e si rivolge a chi legge senza bisogno di filtri. La sua ironia è indimenticabile. Si percepisce solo una leggera fase di stanca appena superata la metà del romanzo, quando si transita verso il Demon tossico e si abbandona la sua genialità di bambino, ma quando le cose precipitano ulteriormente la narrazione riprende vigore. Si tratta forse della maledizione del “dramma a tutti i costi” che aveva investito un altro grande successo statunitense degli ultimi anni, “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara. Come in “Una vita come tante”, anche nel romanzo di Kingsolver la rete di supporto al protagonista fa quello che può, pur nella sua impotenza, ma la comunità in cui abita Demon è abituata a resistere. Lo si nota soprattutto nel clan Peggot, i vicini di casa che testimoniano la sua crescita, che fa di tutto per tenerlo in vita. La sopravvivenza di Demon, allora, è il risultato della combinazione accidentale fra la tigna dei Peggot e quella personale del ragazzo, forgiata dal sarcasmo innato e una lucidità d’analisi che lo distingue nettamente da David Copperfield. Kingsolver ha dichiarato che il suo Copperhead è chiaramente ispirato alla struttura del capolavoro di Dickens, ma le differenze sono sostanziali. È vero, nulla è cambiato dai tempi del buon David, e rimane salda la critica alla cronicizzazione della povertà e l’effetto che ha soprattutto sui minori, ma Demon reclama la sua storia con forza e lo fa con la voce, il già citato sarcasmo, totalmente assente nel bonario David, e la determinazione di farsi ascoltare in un sistema che distrugge le individualità per il profitto.
Per capire l’ironia di Demon, questo lo scambio di battute con la signora Peggot che lo informa di avere un nuovo padre, il nuovo e discutibile compagno della madre.
[…]«No, non è morto nessuno. È una buona notizia» disse Mrs Peggot. «Hai un padre».
«Ed è morto» dissi io. Cercando di non mancarle di rispetto.
«Be’, no. Non quello di cui parlo io».
Pensai alla tomba in cui era sepolto. E alle discussioni sul fatto che io andassi a vederla, così sbottai: «Lazzaro non è reale!»
Mi guardò in modo strano. «No, non lui. Uno nuovo […]»
È con questa ironia che Demon sopravvive alla perdita della famiglia disastrata che gli è toccata, all’incuria del sistema degli affidi, a un’assistente sociale che lo pianta in asso per inseguire i suoi sogni, e che sopravvive alla sua stessa dipendenza prescritta dal medico proprio come è stato per ogni povera anima che è venuta a contatto con l’ossicodone.
La qualità della voce di Demon si combina con una buona dose di anticipazioni, il foreshadowing che in Demon Copperhead esplode in tutto il suo potenziale, creando una costruzione solida dell’impianto narrativo. Chi legge impara sin dalle prime pagine ad aspettarsi il peggio, anche questa una reminiscenza di alcuni grandi romanzi degli ultimi anni. Bisogna citare ancora una volta, a questo proposito, “Una vita come tante”, ma rispetto al romanzo di Yanagihara c’è meno fascinazione verso il dolore. Quello di Demon, poi, è un dolore atipico: è come se già in giovane età avesse digerito la grande fregatura della vita da tossico nella Lee County e adesso non gli resta che prenderla con filosofia. Si può dire che Demon Copperhead sia un romanzo di formazione atipico per le ragioni già esposte, che sfida le ragioni del successo parlando di un territorio dimenticato, che espone il brutto della povertà e delle dipendenze, ma Kingsolver non solo riesce a scrivere un adolescente credibile, ma si riappropria della sua cultura di nativa degli Appalachi.
[…] C’erano state diverse false partenze […]. Pensi di sapere dov’è che sono cominciati i tuoi problemi, solo che poi guardi la pagina e ti rendi conto che no, non sono iniziati lì. Erano cominciati prima. Come quelle guerre che risalvano a George Washington e al whisky. O nel mio caso, al capitolo 1. Prima di tutto, sono nato. Il grosso del lavoro è toccato a me. Eccoci.
Demon è un personaggio capace tanto di autoanalisi, quanto di critica sociale e non nella maniera artefatta di certa letteratura, ma con una genuinità e una consapevolezza esemplari.
La critica ha paragonato Demon a “Shuggie Bain”, romanzo di Douglas Adams già vincitore del Booker Prize 2020: grandi similitudini nella costruzione della voce del protagonista, nel linguaggio regionale, l’accento, il vernacolo e lo slang nella versione originale, ma anche nell’esplorazione del rapporto madre-figlio, con un bambino già fortemente responsabilizzato. Questo, per esempio, è quello che dice Demon di sua madre all’ennesimo percorso di rehab.
Disse che il suo futuro ero io. Che ero al cento per cento la sua motivazione per ripulirsi. Capivo che questo doveva farmi sentire bene, ma in tutta sincerità mi sembrava solo una cosa in più di cui dovermi preoccupare. […]
Mamma mi stava assegnando il superpotere di tenere lei sobria e la nostra famiglia in riga. Un peso mica da poco.
Ovviamente c’è una connessione strettissima con “Dopesick: Dealers, Doctors and the Drug Company that Addicted America” di Beth Macy, che racconta proprio il dilagare degli oppioidi e di cui esiste anche una serie tv prodotta da Hulu; ma in “Demon Copperhead” risuonano molti altri grandi romanzi americani, su tutti “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” di Michael Chabon (Pulitzer nel 2001), ma anche “Elegia americana” di J.D. Vance, anch’esso ambientato negli Applachi e “Il bar delle grandi speranze” di J.R.Moehringer (già ghostwriter di due successi editoriali: “Open” di Andrè Agassi e “Spare” del Principe Harry). Ma pure in quest’abbondanza di connessioni, “Demon Copperhead” rimane un unicuum grazie alla scrittura di Kingsolver. Niente ardite metafore poetiche per mandare avanti il testo e dargli spessore, solo qualche similitudine, molto più divertenti, e una lingua secca ed essenziale proprio come Demon. Ogni capitolo, poi, mantiene una struttura ricorrente, ma che non annoia: tanti eventi, dialoghi forti, chiusura a effetto. Con questo ritmo si arriva in scioltezza al finale che, si diceva già prima, mantiene la speranza e soddisfa la curiosità di chi legge: è questo l’ottimismo di Kingsolver. E sebbene questo sia un romanzo di sconfitti, è ben chiaro che l’unico ragione del loro fallimento è il sistema capitalista in cui esistiamo.
Credi di essere chissà cosa, ma sei solo una caccola in questo mondo incasinato. Tutto questo non riguarda te.
E ancora:
Ci era mancata la possibilità di diventare bravi in qualcosa usando i nostri talenti. Il futuro. Ce l’avevano portato via dandoci in cambio gli attrezzi con cui cuocerci il cervello nella speranza che ci ammazzassimo fra noi prima di renderci conto che i veri stronzi stavano a mille miglia di distanza.
Le vite narrate in “Demon Copperhead” non «lasciano il segno», per dirlo con le parole di Demon, ma hanno perso passato, presente e futuro, e nel tentativo di riparare il torto subito, Kingsolver regala un epilogo per ciascuna e ciascuno, nel bene e nel male. Ma nessuno di loro ha la rabbia, l’istinto di sopravvivenza e la brillantezza di Demon, e per lui la scrittrice riserva un finale ad hoc che non è un risarcimento, ma l’ennesima prova della genialità del suo protagonista. Il fantasma di Dickens aveva proprio ragione.