È durato poco, ma è stato bellissimo: Band brevi ma influenti

È durato poco, ma è stato bellissimo. Ovvero: band/artisti che hanno avuto una breve ma intensa carriera e/o un’esigua discografia ma che tutto sommato hanno contato non poco nel panorama della musica alternativa: più o meno tutti noi, a prescindere dai background, ne abbiamo qualcuno in mente.

Icone più o meno sotterranee, più o meno ignorate dai riflettori della storia, oppure santini di massa che si sono spenti troppo presto. In poche parole piccole-grandi esperienze che hanno segnato scene, stili, mondi, culture. Qui in redazione ne abbiamo discusso a lungo, adottando alle volte la truce accetta matematica (anni di attività, numeri di album in saccoccia) a costo di guastarci il fegato. Il risultato è più o meno quello che avete davanti agli occhi.

Ok, ovvio che non si tratta di una lista DEFINITIVA, proprio perché abbiamo lasciato la possibilità che siate voi a completare/rettificare. Casomai diteci la vostra.

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MINOR THREAT

Un’intera discografia in poco più di 45 minuti. Due Ep scrausi più un mini LP prima di scomparire, se non conti Salad Days postumo. Ma senza quei 45 minuti non ci sarebbe stato Ian MacKaye e i suoi testi, la Dischord Records, gli Embrace ma soprattutto i Fugazi, negli USA una di quelle band cruciali nel panorama della musica underground.

E probabilmente ci sarebbe molta meno gente che non mangia carne, forse per via di quel manifesto che è Straight Edge, pezzo programmatico di un intero movimento. Tracce che non badano alla bella forma, brevi, abrasivi, slogan scanditi con quella rabbia mista ad enfasi tipica di una certa frangia.

Insomma, anche dal punto di vista dei contenuti l’hardcore punk ha dovuto fare i conti con i Minor Threat, una sorta di tappa obbligatoria e di leggenda postuma. Anche per molti altri generi musicali e subculture che di sponda si sono trovati MacKaye per strada, soprattutto se si considera l’impatto di questo gruppo nella formazione di molti giovani nei primi anni ’80 e la fortuna che nel nuovo millennio hanno goduto i Minor Threat. Tra le disparate influenze vale la pena ricordare band come: Dag Nasty, Bad Religion, Embrace, Fugazi, praticamente quasi tutti gli esponenti successivi della scena punk hardcore DIY americana, fino ai Bestie Boys, ai Tool e a chissà quale altra creatura.

SLINT

Nella Louisville della seconda metà degli anni Ottanta la scena è ricchissima e si influenza vicendevolmente: i fratelli Oldham (tra cui spicca Will), Brian McMahan e Britt Walford (che daranno vita agli Squirrel Bait), e quel David Pajo ultimamente tornato agli onori delle cronache per storiacce private. In questo scenario si formano gli Slint, animati da McMahan e Walford, David Pajo alle chitarre ed Ethan Buckler al basso.

Saranno attivi per poco, due soli dischi prodotti: l’epocale Tweez e il mai dimenticato Spiderland, che di influente avrà tantissimo. Anticipatori di un post-rock che nascerà soltanto anni dopo, fautori di uno slowcore di disagio che accompagnerà gli interi anni Novanta (Codeine, Red House Painters, Low), l’influenza degli Slint è ancora oggi uno di quei misteri del tempo che andranno chiariti. Se The Velvet Underground & Nico è ancora uno degli album più influenti della storia del rock, su Spiderland ci stiamo ancora interrogando, eppure quante cose sentiamo oggi che vengono da quel disco.

NICK DRAKE

Mentre negli USA la scena folk newyorkese aveva già avuto la sua esplosione, nei chiassosi pub nei dintorni di Cambridge all’epoca dei mod e delle cafe racer, poteva capitare di incontrare un timido spilungone intento a cambiare accordatura ad una Martin di mogano dal suono scuro; tra un’accordatura e l’altra, filtrando il caos e gli schiamazzi, si poteva ascoltare quella chitarra accompagnare la voce flebile ma profondissima del giovane Nick Drake, totalmente incapace di stare su un palco, cantare versi come  They’ll all know that you were here , When you’re gone. Già al primo bellissimo album sembrava conoscere il suo destino di talento puro e sfortunato.

All’apice della sua depressione compose quello che è un capolavoro limpido di cantautorato, Pink Moon. La voce ha una delicatezza disturbata che nelle pieghe delle sue modulazioni lascia trasparire tutta la disperazione di cui è caricata la breve esistenza di un uomo giusto al momento sbagliato.

JOY DIVISION

Eh va beh: che altro potremmo dirvi di più di quello che già sapete sui Joy Division?

Meme incontrastato del nostro immaginario che ha influito in quella fase di frosty disease della nostra adolescenza, i Joy Division rappresentano una pazzesca eredità per l’intera musica alternativa. Probabilmente l’emblema della band con una popolarità immensa e inversamente proporzionale alla sua longevità. La struggente e disperata malinconia di Ian Curtis, una sorta di Gesù Cristo della New Wave, le atmosfere, gli echi, le linee di basso, le liriche decadenti, una cifra stilistica che negli anni è stata copiata e ricopiata da un sacco di giovani che non avevano voglia di sorridere.

E poi va beh Unknow Pleasure, e quella cover lì di Peter Saville che è diventata praticamente un design anthem per eccellenza (Tumblr per credere).

RICHARD HELL & THE VOIDOIDS

Dopo essere stato cacciato dai Television, scartato dai New York Dolls e buttato fuori dagli Heartbreakers di Johnny Thunders, Richard Hell si rompe il cazzo, mette su un gruppo tutto suo e partorisce il vero capolavoro del punk statunitense.

Blank Generation è il fortunato scontro tra un’attitudine inesorabilmente provocatoria e una lucida riflessione generazionale ai limiti dell’esistenzialismo, in bilico tra rock n’ roll d’assalto e crudo furore proto punk. Una sferzata senza mezzi termini che, possiamo dirlo con certezza, solo una piccola parte del sudatissimo ed esagitato pubblico che affollava il CBGB’s, è stata in grado di cogliere.

Blank Generation dura 39 minuti. Bastano i 3 della title track per innamorarsene.

CODEINE

Se abbiamo accennato allo slowcore con gli Slint, il genere si materializza in maniera meno disincantata e più totale con gruppi come i Codeine.

Stesso anno di Spiderland, 1991, la Sub Pop riedita Frigid Star (uscito nel 1990), uno dei due album della piccola discografia della band newyorkese. Si parla di sadcore, oltre che di slowcore, per quelle venature tristi della lentezza che caratterizzerà il gruppo, e che sarà capostipite di un genere che lascerà esprimere i Low qualche anno dopo (con dischi come I Could Live In Hope).

Ricordiamo che il 1991 è anche l’anno in cui dall’altro lato della costa esce un’altra piccola rivoluzione, quella che esplode con Nevermind e diventerà il grunge di Seattle. Se i Nirvana lasciano esplodere la rabbia, i Codeine soffrono, e in questa sofferenza estrema trovano una sorta di beatitudine. Non è un caso che tutti membri dei Codeine siano ancora vivi.

KYUSS

Palm Desert  sul finire degli anni ottanta non doveva essere una cittadina facile. Lontana dalle spiagge e dal clamore di Los Angeles, immersa nel torrido deserto californiano, frequentata solo da appassionati di tennis durante gli Indian Wells. Ecco, quello che è successo è che in questo posto dimenticato da Dio o chi per lui, tre ragazzetti che non avevano raggiunto neanche la maggiore età hanno deciso di condensare le sperimentazioni portate avanti da un paio di metal band statunitensi (Blue Cheer, Blue Öyster Cult) e britanniche (Black Sabbath, Hawkwind), buttarci addosso una colata di sabbia bollente estremamente hard rock, tirando fuori un sound grezzo, violento ma nel contempo incredibilmente psichedelico.

Lo stoner rock è stato il miraggio lisergico dei Kyuss nel calore offuscante del deserto californiano.

AT THE DRIVE-IN

I nuovi Fugazi, più o meno così venivano considerati i quattro ragazzi di El Paso, ovvero quella formazione che a fine novanta incrociava il post-hardcore trascinandoselo dietro nel proprio percorso di maturazione e crescente complessità di liriche, ritmiche e melodie.

Tre album di cui Relationship of Command, toccato dalle mani d’oro di Ross Robinson, in quegli anni produttore e Re Mida dell’industria discografica, li consacrerà a band di culto, se non altro perché, un anno dopo il successo commerciale, il gruppo si scioglierà, scorporandosi in due formazioni: gli Sparta e i The Mars Volta, proprio per l’impossibilità di rimanere confinati nel vecchio calderone punk.

Gli esordi emocore e più avanti la strada della psichedelia spinta, intrapresa con uno spirito texano sempre più esoterico: gli At The Drive-In si distinsero per prove dal vivo epiche e per aver introdotto inedite dinamiche compositive che diedero un’iniezione “colta” e sofisticata a quello che all’epoca si chiamava alternative rock e non ancora “indie”, forse anche per l’aggressività e la pesantezza che persisteva nell’impatto sonoro di un rock brillante che coesisteva, dall’altra parte della barricata, con i riffoni tamarri del nu metal.

Nei Duemila non ci sarà gruppo post-hardcore o screamo che non si fosse richiamato agli At The Drive-In come bruciante fonte d’ispirazione o come layout creativo da applicare alle proprie produzioni.

NO NEW YORK (che non è una band ma una compilation)

E ora facciamo una piccola eccezione, lasciamo da parte le band e parliamo di no-wave. In un’epoca letteralmente invasa dalla new wave, ovvero la fine dei Settanta della costa orientale americana, il rifiuto dalla venature camusiane di questo piccolo disco è paradossale. Ricco di rumore che taglia. Un rinnegamento dei propri tempi, prodotto da Brian Eno.

C’è Lydia Lunch con i suoi Teenage Jesus, c’è il rumore sordo che cava la stomaco, i DNA, e una rivoluzione orchestrale che tocca tutti gli organi sensibili all’ascolto. Vero, parliamo di una compilation, e la compilation in genere che altro sono se non raccoglitori anonimi o piccole playlist?

Tuttavia in questo caso qualcosa si muove, e del resto non è un caso che l’influenza di Brian Eno sulla musica contemporanea sia ancora vivissima (vedi alla voce Damon Albarn). Con la no new wave la protesta contro i Talking Heads e le major dell’underground era appena agli inizi: bisognava ritornare alla purezza, agli Swans, ai Suicide.

PORTISHEAD

Il nome della cittadina del Somerset, dal 1991, rappresenta la metà più cool del Bristol sound. Mentre in città ed un po’ in tutta l’inghilterra impazzava il Trip Hop dei Massive Attack e Tricky, il producer Geoff Barrow e la cantante Beth Gibbons, incontratisi per incidere la colonna sonora di un corto, decidono di darsi alla produzione di un disco a cui dà il suo contributo anche il chitarrista jazz Adrian Utley.

Quel disco è Dummy, la bibbia cioè delle contaminazioni tra suoni rock, ma anche jazz e da colonna sonora con il mondo della musica elettronica. Il tutto con la voce algida ed eterna di Beth Gibbons. Negli anni hanno spaziato in entrambe le direzioni, ora dandosi a remix elegantissimi dai Kraftwerk ai Noir Desire, ora registrando un disco live con un’orchestra di 28 elementi (Roseland NYC Live).

Quando dopo l’uscita di Portishead, che fissava i concetti di Dummy, sembrava che avessero esaurito gli argomenti, hanno dato alle stampe Third. Un’altra volta avanti a tutti.

JEFF BUCKLEY

È tutta in salita la storia dei figli d’arte e difficilmente si riesce a togliersi di dosso quelle ombre ingombranti. Non è la storia di quel Jeff, affogato prima del tempo, figlio di un certo Tim Buckley considerato fra gli innovatori più importanti della storia del rock, che lo abbandonerà per cercare fortuna a New York quando ancora non era nato. Certi geni son fatti per restare e attaccarsi alla stessa materia.

Di Jeff se ne parla un po’ dappertutto, e spesso è perché la sua scomparsa prematura e quell’alone di maledettismo che si dà ai morti giovani, vale spesso più di un buon disco. Quando, probabilmente, le acque del Wolf River se lo portano via, Grace era già uscito e aveva stravolto gli ascoltatori, e tutti credevano fosse tornato Tim dall’inferno. Stava completando quello che poi sarebbe stato Sketches for My Sweetheart the Drunk e che uscirà, ovviamente, incompleto. Ma per chi se ne parte da Anaheim, la strada della musica è tutta in salita. Losa Angeles – New York, andata e ritorno, tra un lavoro da cameriere e una session da turnista.

Cerca spazio, il giovane Jeff, ma quello che più lo preme è il distaccarsi da quel padre solo genetico che non ha mai conosciuto. L’occasione in un concerto tributo, in cui reinterpreta le sue canzoni, segnando una linea di demarcazione fra sé e quell’imponente figura. Poi il primo Ep e la firma con la Culumbia. Il successo però è tutta un’altra cosa.

Nel 1993 pubblica Grace, in cui reinterpreta Hallelujah di Cohen, e parte per un tour solitario in giro per il mondo. Non è ancora una leggenda, anche se di quel concerto alla festa dell’unità di Correggio se ne parla come di una seconda discesa in terra del figlio redentore. Sta in tour quasi quattro anni, incide pezzi in cui suona la chitarra per altre band, o di tributo a Jack Kerouac, finché sulla sua strada non incontra il fiume dei lupi e, la leggenda, quella vera, ha inizio.

RITES OF SPRING

Ma avrei potuto dire Gray Matter, Embrace e Moss Icon prima e Mineral, Texas is the Reason, Sunny Day Real Estate poi, e non avrebbe fatto molta differenza. Non per fare di tutta l’erba un fascio, perché questi gruppi appena citati sono pure molto diversi tra loro, ma perché praticamente tutta la frangia della prima e seconda ondata emo è composta da piccole schegge, da una costellazione fatta di gruppuscoli di strani adolescenti con una nuova attitudine compositiva. Il tratto comune è la discontinuità à la Husker Du di Zen Arcade, la rottura con l’hardcore rabbioso di prima maniera, l’inquietudine emozionale che porterà a qualcos’altro di seminale e la breve carriera.

Mentre Kobain scopriva l’eroina, questi scapestrati underdogs di Washington D.C, un po’ sfigati, intellettualoidi e non ancora hipster non avrebbero mai potuto sospettare la grande bolla speculativa che sarebbe esplosa anni dopo attorno alla parola “emo”, ma è grazie a questi tizi che una valanga di band sono entrate in fotta con sonorità che vanno dai Sonic Youth/Sub Pop all’hardcore più scabro e destrutturato e che certi redattori di magazine patinati si siano inventati una subcultura per patemi da teenagers.

Giusto per capire dove sono arrivati certi hype musicali, certi ciuffoni neri da bambini lobotomizzati, ma anche band come The Get Up Kids, Weezer, Death Cab for Cutie & Co.

SCISMA

Sembrava una canzone di De André, quella lettera del 2002 che sanciva la rottura degli Scisma. Come in tutte le poesie, però, anche la fine non è mai una chiusura, perché oltre il punto c’è sempre qualcosa che riparte. E l’anno dopo Benvegnù pubblicava il suo primo album solista, aprendone un’altra di strade. Che fosse stato per divergenze artistiche o, per la versione ufficiale, per il troppo amore, gli Scisma mettevano fine a una delle band più innovatrici, nonostante la breve esistenza, del panorama indie rock italiano.

Era una questione di suoni e di preziosismi la loro, mai banali nella ricerca delle parole e in quella musicali. Supportati, da una parte, dalla poetica che continuiamo ad assaporare in Benvegnù, e dall’altra la voce di Sara Mazo, una di quelle che fai fatica a dimenticarti ma che si è persa chissà dove (tanto da scatenare una raccolta firme per il suo ritorno). Dopo i primi due demo sbarcano alla Emi e vengono prodotti da Manuel Agnelli, che lascia tracce un po’ dappertutto, con cui, però, pubblicheranno solo due album.

È Armstrong, il secondo, in particolare a legarli per sempre alla storia del rock indipendente italiano. Sperimentale e profondo è uno di quei dischi che, se non lo si è mai ascoltato, si rischia di aver perso una parte della nostra musica di respiro più internazionale che italiano (e, forse, è proprio quello il problema).

BRAN VAN 300

Nati  sul finire degli anni ’90 dalle estrose intuizioni di James Di Salvio, italo-canadese icona del clubbing a Montreal, i Bran Van 3000 con il loro (praticamente unico) album datato 1998 Glee, hanno dato vita a quella concezione di musica come contaminazione e meltin-pot non solo musicale ma anche culturale (si trattava in realtà di un collettivo di almeno 9 persone provenienti da i più disparati ambiti musicali e artistici), che è stato uno dei muri portanti degli anni 2000.

Per la prima volta il mezzo artistico del campionare brani hip-hop o basi house su cui costruire-distruggere-ricostruire a tratti pesanti che vanno dal funk al jazz al rock, è venuta veramente alla luce, lasciando un segno grosso quanto un cambio di millennio.

NIRVANA

Sono durati solo pochi anni i Nirvana: tra il 1989 di Bleach e il 1993 di In Utero ne passano quattro, poi c’è giusto il tempo di far uscire l’Unplugged e morire. Eppure ancora non si smette di parlarne, dei Nirvana, di Kurt Cobain, dell’angelo maledetto, e quest’anno è davvero un delirio, tra il film di Brett Morgen – Montage of Heck -, e l’annunciatissimo disco inedito solista a cura Kurt Cobain. Ma cosa ci hanno lasciato davvero Cobain e compagnia nei favolosi inizi anni Novanta?

Il grido Nevermind può essere riciclato ancora oggi di fronte a tutta la merda quotidiana. Quel sovvertimento di valori di cui è complice la figura di Cobain e tutta l’attitudine punk in generale, è l’esplosione di una rabbia autentica che da Seattle raggiunge il globo. Ne è venuto fuori una specie di evangelismo in forma di musica, che al posto delle best quotes di Cristo raggranella piccole chicche del genere ”Love myself better than you / I know it’s wrong so what should I do?”, tratte dal canzoniere Cobain. Con i Nirvana il grunge diventa stile di vita, travalicando i limiti di genere musicale (del resto a sentire i Pearl Jam si ha più la sensazione di un gruppo classico hardrock che del graffiante noise che vien fuori da dischi come Nevermind). Quel suono (che diventa inconfondibile in particolare nel periodo di In Utero), suono che esce fuori da una formazione minimal a tre chitarra basso e batteria, è tutto loro; quel modo di cantare e contemporaneamente urlare di Cobain sul palco è ancora tutto loro; le melodie che contengono addirittura echi beatlesiani nelle canzoni dei Nirvana, sono un marchio di fabbrica. I Nirvana fondono insieme il rumore con la capacità di mantenere viva la melodia, e fanno esplodere questa sintesi rabbiosa nella prima metà dei Novanta. Da allora, ci provano ancora a copiarli.

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