Raccontare storie è una faccenda complicata, nonostante il respiro che un narratore può ritagliarsi. Dietro l’angolo ci sono insidie talmente complesse che basta una parola per rovinare tutto, per finire in fondo alla lista dopo tutto il lavoro precedente. Ci si riesce con un libro sbagliato in una carriera decennale, in cui di pagine ce ne sono ben di più. Dentro a una canzone i pericoli si moltiplicano, il discorso può non esaurirsi del tutto, o farlo troppo rapidamente, diventando una sequela di situazioni e di immagini incomprensibili e, spesso, prive di significato. Essere fraintesi è forse il rischio maggiore, soprattutto per un mondo che sempre più non trova nella narrazione una risorsa, ma si trova così a suo agio nel giudicare senza comprendere appieno. L’austerità vera, questa grossa parola, è proprio qui. Non nelle costrizioni economiche, non nelle pretese più reazionarie che ci illudiamo di poter condividere. È il contenuto, delle nostre frasi e di quelle degli altri, a subire una restrizione ormai non più rinviabile. Allo stesso modo della rivoluzione del Sendero Luminoso, quando le ideologie di contenuti ne avevano fin troppi. Parafrasando Rodari, nel paese di chi non si parla più, narrare è diventata una malattia multiforme, dal volto della Medusa, che nelle sue imprevedibili direzioni ti esclude o arriva a ricordarti quanto anche una parola distante può entrarti dentro, toccando le parti che non credevamo davvero essere così scoperte.
Per ragioni diverse ognuno si lega a certi racconti. Ci si vuole vedere dentro, protagonisti della storia di un altro perché la propria non sembra così interessante, a volte si tratta di semplici questioni territoriali, di paesaggi che si sfiorano anche solo di sfuggita. È il bello e il terribile del racconto, pensare di stringere qualcosa che non c’è fra le mani, ma sentirlo così tanto da poterlo quasi vedere. Quando Max Collini e Jukka Reverberi hanno cominciato a girare il paese con Spartiti, Austerità non c’era ancora. Folle idea, quella di portare nelle città delle narrazioni spesso lontane nel tempo e nei luoghi. Ma la gente doveva avere ancora abbastanza fame per convincerli ad arrivare dove siamo ora. Chi aspettava un disco che raccogliesse Offlaga Disco Pax e Giardini di Mirò si dovrà ricredere. Il passato rimane, e ricorre, ma la creatura è ben educata a qualcosa di nuovo, la penna è la stessa, come lo sono gli strumenti e le macchine, la mano in parte no. Questo tempo non è fatto per il presente, non ancora almeno e tutto proviene da una scatola rimasta chiusa, lasciata da parte, che raccoglie vecchie foto e vite che sono già sfiorite. È tanto, il dolore che riesci a percepire, che si camuffi nella pistola ad acqua di Austerità o al bagliore che si è perso nelle onde dell’estremo oriente. Soffrire insieme è uno dei pochi modi che ci rimane per rivendicare la nostra appartenenza in un clima di privazioni per cui il limite di sopportazione viene sempre spostato un po’ più in là.
Vivere è un po’ resistere, ai colpi e alle intemperie, e l’unica arma di difesa è indirizzare quelle forze oscure in un modo che non sia perduto, non solo per confortare. Per questo, non sempre, si finisce a raccontare o a suonare un certo tipo di musica, le corde sono quelle, ed è una questione politica, di quelle che fanno paura anche ai più potenti quando si ricordano di essere uomini. Non si tratta di una sterile dichiarazione di sofferenza, che più che aiutare esclude, perché l’ironia non è un arma da tutti e Max Collini lo sa. È una delle nostre peculiarità, accettare che quella pillola amara in fondo con lo zucchero non sia poi così male, liquidare un errore di valutazione con un riferimento giovanile o grottesco. Una di quelle situazione a metà fra la finzione e le leggende locali, fuori e dentro i propri ricordi, fino a ricostruire quelle piccole storie da cui quasi nessuno può sentirsi escluso, che voglia vedere o meno. Riparo non ce n’è. Nemmeno la musica riesce a conservare un assetto di speranza e, anzi, quando si appropria della scena ti lascia appena il tempo per rifiatare, perché poi sei già caduto. Austerità diventa così un unico grande quadro e in quella tela, bene o male, si rimane intrappolati.
Questione di austerità, e delle responsabilità che ne derivano. Dalle scelte del passato che ci hanno reso quello che siamo. Il tempo si blocca e non possiamo che farlo anche noi. Questo è narrare, questo è sentire quei racconti che ormai non abbiamo più possibilità di seguire. Anche questa è la ribellione di Vera e di Filippo, quando le decisioni le prendono gli altri, e le illusioni crollano quasi per caso, per errori di valutazione o davanti alla perdita di qualche mito. Se è vero che gli eroi sono scomparsi uno dopo l’altro, seguendo il naturale sfiorire delle esistenze, forse è perché non ci sono mai appartenuti.