«Per nostra fortuna non sanno di essere loro i più forti» dice l’altro senza girarsi. «Non lo sapevano ma adesso devono averlo capito.»
«È molto semplice: restate tutti a casa». Una frase scritta sui muri, apparsa all’improvviso su volantini ciclostilati, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle case. Un’intera città e le sue strade, i suoi luoghi di lavoro, le sue piazze che d’improvviso si svuotano una mattina mentre due bambini si trovano catapultati in mezzo al vuoto del giorno mentre stanno andando verso la loro scuola, chiusa, e le volanti delle forze dell’ordine si aggirano minacciose per le strade.
Cosa accade, che cos’è questa cappa opprimente, cos’è questo senso di angoscia che pervade le prime pagine del libro?
Terminato nel 1961, Atto di Violenza, come altre opere dello scrittore catalano Manuel de Pedrolo non passò al vaglio della censura franchista. Presentato col titolo Esberlem els murs de vidre (Abbiamo rotto le pareti di vetro), viene respinto una prima volta nel 1963, poi nel 1965 e ancora nel 1968, benché vincitore del premio Prudenci Bertrana con il titolo Esta d’excepció (Questa è un’eccezione). Sotto il regime franchista cambiare titolo era, infatti, una strategia rivolta ai funzionari istituzionali, che in certe occasioni risultava vincente. Non fu questo il caso, Acte de violencia sarà pubblicato dalla casa editrice Edicions 62 solo nel 1975 alla morte del caudillo.
Da tempo fuori catalogo, ristampato nel 2016 da Sembra Llibres, Atto di violenza è il primo volume della collana Vocativi, curata da Giusi Campisi e Piergiorgio Caserini – dedicata a opere di narrativa e saggi d’impegno civile per testimoniare la presa di posizione di autori che fanno della propria opera uno strumento di lotta – della casa editrice Paginaotto, nata nel 2019 come progetto editoriale dell’associazione culturale Tiring House, fondata da un gruppo di psicoanalisti.
«Ma non posso certo uscire per strada ed esprimere con franchezza le mie idee […] sarebbero bollate come sovversive. E questa è la cosa più intollerabile: qualsiasi punto di vista che si allontana, anche minimamente, dall’ideologia ufficiale, viene definito sovversivo. In un clima del genere non è possibile costruire alcunché perché, senza il diritto di critica, le istituzioni si corrompono, gli uomini al potere vengono mitizzati e ogni decisione, persino la più sensata, finisce per diventare arbitraria.»
Cosa sta accadendo, dunque, in questa città catalana senza nome? de Pedrolo ce lo racconta in tre sezioni: primo, secondo e terzo giorno, e in ventuno capitoli, ciascuno dei quali si concentra su piccoli bozzetti animati da personaggi che vivono il confronto con una situazione senza precedenti. Dopo quindici anni di potere incontrastato del Giudice Domina, gli abitanti si ribellano, attraverso un processo apparentemente non violento mirato alla paralisi di ogni produzione: nessuno va a lavorare, trasporti fabbriche e negozi cessano ogni attività.
Una rivolta generale e silenziosa senza spargimenti di sangue che pone il lettore davanti a un potente interrogativo: cosa accadrebbe se sommassimo le forze in un’azione collettiva di disobbedienza civile?
Fin qui la traccia della trama che tiene unito il libro. Poi c’è la scrittura: e qui de Pedrolo (L’Aranyó, Segarra, 1918 – Barcellona, 1990) narratore, drammaturgo, saggista, poeta e traduttore in catalano – Dos Passos, Faulkner, Sartre – uno degli scrittori più illustri della letteratura catalana del XX secolo, dà il meglio di sé consegnando al lettore non una storia lineare ma una serie di capitoli che appaiono come racconti a sé stanti tenuti sì, insieme, dal fil rouge dello sciopero visto attraverso la vita quotidiana di uomini, donne, scrittori, attori, una coppia di turisti, bambini, parrucchiere e cameriere, proprietari d’albergo e studenti, bottegai e dirigenti d’azienda, famiglie e amanti, ma che allo stesso tempo sono ritratti straordinari di una popolazione – quella catalana – brulicante di vita e di passioni. Quasi tante scenette teatrali, tutte convincenti, che trasportano il lettore tra le pareti di una casa, dietro una finestra, nei corridoi di un ospedale, nei locali vuoti di una fabbrica, tra le scale di un palazzo, nelle strade e nelle piazze deserte: una commedia umana di grandissima presa e indubbio fascino letterario.
«Sto solo dicendo che non riesco a vedere una via d’uscita chiara alla situazione che si prospetta. Perché non basta che all’improvviso un popolo si ribelli all’ordine costituito. I movimenti di contestazione non portano da nessuna parte se non contengono qualche fermento creativo, una volontà di costruire sulle rovine, una volontà che si traduca in un programma più o meno preciso.»
Del resto oltre all’evidente carica sovversiva in esso contenuta, Atto di violenza fu inviso alla censura franchista anche per la lotta che il regime conduceva contro ogni allusione all’identità nazionale e al catalanismo, non permettendo riferimenti alla storia e alla società della Catalogna, di cui invece il romanzo di de Pedrolo è molto rappresentativo.
Autore del Mecanoscrit del segon origen, il libro più tradotto della letteratura catalana, de Pedrolo fu autore interessato a tutto perché tutto serviva per spiegare il suo pensiero e per creare nuovi mondi che ritraessero una società complessa e repressa – politicamente, sessualmente, socialmente.
In Atto di violenza si sente forte a ogni pagina l’ombra opprimente franchista, come la paura della rivolta, del cambiamento e, altresì, la speranza di una vita finalmente al di fuori del cono d’ombra della dittatura ma allo stesso modo si percepisce – fortissima – la vita della città, delle sue classi sociali, del fermento dell’epoca come anche dei suoi inevitabili retaggi provinciali.
Un romanzo in cui l’autore parla di oppressione e resistenza, di disobbedienza civile, di scioperi e conflitti, ma anche di solidarietà e impegno sociale che non solo ha valenza di documento storico di una stagione complessa della recente storia spagnola ma che non smette di parlare al presente, grazie alla sua attualità, al suo metterci in guardia sulle storture e gli abusi di potere, sulle dinamiche tra politica e forze dell’ordine, sulla necessità dell’attenzione e di un grande spirito etico per sovvertire l’ordine oppressore e sostituirsi con la democrazia e il diritto alla sopraffazione e alla forza.