John Berger, nel 1968, scriveva che: «il ruolo storico delle manifestazioni è mostrare l’ingiustizia, la crudeltà e l’irrazionalità dell’autorità statale del momento». In tantissimi all’epoca provarono a cambiare le sorti di un mondo che non aspetta, né ti aspetta. Le rivolte popolari sono da sempre declinate in nome di una violenza e paura per la ricostruzione di un “noi” sociale un po’ perduto. Assoggettati ormai da una società alienata dal capitalismo e governata dall’individualismo, non c’è più effettivamente spazio per il noi. La gioventù di oggi viene tra l’altro accusata di vivere nell’apatia, troppo connessa a un mondo fittizio per recuperare un senso politico e radicale della partecipazione attiva alla vita sociale. Liberi ma senza via di uscita, almeno nel privilegiato mondo occidentale. Tuttavia, il 2019 sembra voler ribaltare tutto quello che finora ci hanno insegnato. Dalla Catalogna al Cile, dall’Iraq al Libano un autunno di fuoco, dove centinaia di migliaia di persone si stanno mobilitando e protestano nelle piazze. Queste rivolte, fatte prevalentemente da attivisti poco più che ventenni, hanno motivazioni e storie di base tra le più distanti fra loro, ma con un comune denominatore: un disgusto rispetto all’attuale scenario politico.
Le manifestazioni che hanno coinvolto Hong Kong la scorsa estate nascono come il rifiuto della legge sull’estradizione, evolvendosi in proteste anti-governative e pro-democrazia piuttosto violente. L’aeroporto internazionale di Hong Kong è stato ripetutamente occupato dai manifestanti e le reazioni della polizia non sono state di certo «zucchero e cannella». Questo movimento di protesta è figlio del suo tempo, nasce e si organizza sui social: sono diversi i gruppi e gli account su Instagram e Telegram su cui vengono postate notizie sulle prossime proteste o consigli su come affrontare gli attacchi della polizia. La gestione sui social implica un ulteriore problema di questo tipo di fermento giovanile, ovvero quello di una protesta dove tutti sono leader e nessuno lo è veramente. Questo significa che un movimento, seppur con un buon autocontrollo, è comunque in balia delle circostanze.
In Libano il 17 ottobre moltissimi cittadini sono scesi in piazza con la richiesta di dimissioni del governo, nato lo scorso gennaio. Il Libano sta vivendo una fortissima crisi finanziaria, aggravata dai problemi e dalla corruzione dei governi precedenti. La risposta alle proteste da parte del governo è stata quella di tornare indietro sulle proposte di legge, per poi aumentare le tasse e reprimere i tafferugli con violenza. In realtà, a pensarci bene, il risultato finale di una rivoluzione non è tanto politico quanto sociale. In Libano, ad esempio, le rivolte vanno avanti dal 2005, ma nell’ultimo anno i manifestanti hanno giurato di rimanere in strada fino alla caduta effettiva del governo e stanno elaborando delle proposte per contrastare l’ondata di violenza e delle riforme per lo stato libanese.
Stesso scenario in Iraq contro le politiche del primo ministro Adel Abdul Mahdi: secondo Transparency International la disoccupazione giovanile in Iraq è intorno al 25 per cento ed è il dodicesimo paese più corrotto al mondo. I giovani iracheni protestano quindi per un lavoro che non esiste e per garantirsi una vita al di sopra della soglia minima di povertà. Nella prima fase delle rappresaglie di ottobre, sono morte più di 150 persone in seguito agli scontri con la polizia. Sono proteste spontanee, condotte da giovani senza leader riconosciuti: popolari in senso stretto. Nella seconda ondata di proteste, riprese il 25 ottobre, gli studenti di Baghdad e delle province meridionali irachene hanno preso parte alle manifestazioni nonostante gli avvertimenti del primo ministro. In un solo weekend, sono state uccise 74 persone e più di 3000 ferite.
I manifestanti sono quasi sempre tra i 20 e i 30 anni, molti di loro sono disoccupati o con lavori precari; seppur con rivendicazioni diverse, è importante riconoscere che si tratta nella maggior parte dei casi di giovani stanchi della politica che li rappresenta. Da un continente a un altro, ottobre 2019 è stato caratterizzato da felpe nere, caschi e manganelli. Da metà ottobre infatti, dopo l’approvazione di una legge che aumentava il prezzo del biglietto della metropolitana della capitale – legge in seguito ritirata ma senza conseguenze sulla rivolta- il Cile sta attraversando una crisi gravissima con scontri nelle piazze, l’introduzione del coprifuoco e il ritorno dei militari in strada. Grave al tal punto che ha indotto Amnesty International e l’ONU a indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse durante gli scontri. Il governo del Cile ha dichiarato che finora sono state uccise 18 persone, tra cui cinque dalle forze di sicurezza, 2600 persone sono state arrestate e più di 500 sono state ferite. Santiago brucia e ritornano anni di dittatura, di soprusi e corruzione. È chiaro che il problema non è un biglietto metro troppo caro, ma la mancanza di risorse che il governo non provvede a dare ai suoi cittadini: la sanità, l’opportunità di un’istruzione, il sistema pensionistico – e persino l’acqua – sono privatizzate; i cittadini s’indebitano fino al collo e a guadagnarci sono solo le classi elitarie, ai vertici delle multinazionali.
Giovani stanchi e violenti: sembra quasi che questa retorica non possa coinvolgere l’Europa bianca e privilegiata. Eppure, spostando lo sguardo sul territorio europeo, la Spagna sta vivendo momenti altrettanto destabilizzanti. L’ormai incrinato rapporto tra il governo centrale di Madrid e lo stato indipendente della Catalogna ha come suo risultato Barcellona e altre città catalane letteralmente in fiamme. Alcuni manifestanti hanno infatti bruciato automobili e lanciato acido e bombe molotov contro la polizia, che a sua volta ha risposto aprendo fuoco. Nella giornata di sabato 26 ottobre, a Barcellona si sono svolte due manifestazioni: la prima, pacifica; la seconda, invece, con pietre, manganelli e proiettili di gomma. Sono giovani che hanno creduto in una secessione necessaria e che affidano nella manifestazione violenta la speranza di un germe di cambiamento. Il cambiamento, però, non è certo. Ma è l’idea dietro alla manifestazione che conta.
Gli avvenimenti dell’ultimo mese lasciano un profondo senso di disorientamento; ci troviamo di fronte a paesi lacerati dai soprusi e dalle disuguaglianze sociali, da lotte di classi e di generazioni. È sorprendente, quasi quanto banale, riflettere su quanto la storia si ripeta: i militari nelle strade, il coprifuoco, le false promesse di nuove proposte di legge riecheggiano la dittatura repressiva e angusta di Pinochet. Se la memoria non ci aiuta, la musica può venirci in soccorso. Più di 30 artisti cileni hanno deciso di rielaborare in solidarietà ai manifestanti quello che è stato un tempo l’inno della rivoluzione: El derecho de vivir en paz (il diritto di vivere in pace) di Victor Jara, cantante folk cileno torturato e ucciso dai soldati in seguito a un ordine di Pinochet. Il nuovo video della canzone è stato rilasciato questo sabato dal collettivo di artisti. Il diritto di vivere in pace è la rivendicazione di tutti i diritti. Ottenerli, in alcune circostanze, significa esigere cambiamenti profondi nella struttura sociale di un paese. Quello che è emerso, in Cile così come in Spagna, in Iraq e in tanti altri posti, è che nonostante la partecipazione attiva da parte di tutti i settori della società, gli studenti istruiti e politicizzati rimangono i protagonisti assoluti. Il perché è facile da intuire: seppur con rischi evidenti, il tentativo è quello di avere una voce in capitolo e innescare una reazione — qualcosa che si muove, che fa meno paura rispetto a restare inermi a guardare il mondo mentre si sgretola.