Atlanta: la versione di Childish Gambino

Il 2018 è senza ombra di dubbio l’anno di Donald Glover la cui crescita dal punto di vista artistico sembra davvero non poter avere limiti. La capacità di Glover di intrappolare lo spirito del tempo, in un’epoca in cui il “tempo” cambia di anno in anno, è probabilmente un unicum nella storia moderna. Ma al di là dell’hype e del trend che Glover riesce a creare con la sua figura artistica, occorre, forse, comprendere che il lavoro che negli ultimi anni l’artista di Atlanta sta mettendo in campo fa di lui davvero un’artista a tutto tondo nel senso più alto del termine. Glover, aiutato anche dalla maschera di Childish Gambino sul fronte musicale, non solo compone musica, non solo dirige serie tv, non solo fa il comico ma attraverso tutte queste attività prova a esplorare in maniera totale e onnicomprensiva un frammento della realtà che, in quel preciso momento, gli sta a cuore. Quello che Donald Glover fa, attraverso i tanti mezzi, è vedere sotto forme espressive differenti un soggetto in maniera tale da offrirne una visione e una comprensione completa.

Per questo, le varie produzioni di Donald Glover non devono essere viste come dei banali tentativi di differenziare il suo investimento artistico ma devono essere lette assieme per poter essere comprese. Questo è soprattutto vero se si considerano appaiate, da un punto di vista cronologico, le produzioni musicali e quelle relative al mondo televisivo.

Le ultime due uscite discografiche di Childish Gambino sono, in qualche modo, strettamente legate al lancio negli States delle due stagioni di Atlanta, la serie creata e diretta da Donald Glover.

 

Se Childish Gambino si era fatto da subito amare con il suo rap ironico e tagliente di Camp e Because the Internet, nel 2016 raggiunge il suo apice musicale (finora) con Awaken, My Love! con cui nel 2017 rischia di vincere il Grammy come miglior album dell’anno. Awaken, My Love! è un disco meraviglioso in cui Gambino abbandona le sonorità più legate al mondo del rap e prova a fondere cori gospel, drum machine e atmosfere oniriche in un unico album. È un disco di sperimentazione musicale pura per lui che, fino a quel momento, ci aveva abituato al rap di matrice convenzionale (da un punto di vista di basi musicali) come dimostrato nel singolo Freaks and Geeks. Pezzi come Redbone e Me and Your Mama sono degli esempi contenuti in quell’album che si abbandonano ad atmosfere placide, old school, al falsetto di Gambino, in un ritorno alle origini della musica black che, per lui, rappresenterà la consacrazione definitiva sul campo musicale. Il 2016 è, quindi, l’anno in cui Donal Glover affonta il tema della musica in senso stretto: innovazione, tradizione, lotta per l’affermazione in campo musicale, amore per le sue origini e senso di conflitto con le stesse, allontanamento da un certo modo di intendere musica e artista.

Nello stesso anno viene mandata in onda la prima stagione di Atlanta, in cui Donald Glover, tolta la maschera di Gambino, cerca di affrontare con i mezzi televisivi tutti i temi che abbiamo appena elencato. Lo fa però in una maniera totalmente originale e anticonvenzionale. Il pubblico ne apprezza lo spirito, la critica ne loda la fattura. È un grande successo soprattutto se si pensa che la serie sembra essere impossibile da incasellare in un genere.

Atlanta narra le avventure di Earn, un ragazzo afroamericano espulso da Princeton che non riesce a trovare un suo posto nel mondo: alle prese con lavori precari, incastrato in una difficile situazione sentimentale con la sua ragazza Vanessa con cui ha avuto anche una bimba. Le difficoltà economiche lo portano a frequentare suo cugino Alfred aka Paperboi, autore di un mixtape che inizia a raccogliere consensi importanti e che sembra poter essere un trampolino di lancio per la sua carriera in ambito musicale.

La prima stagione di Atlanta è, praticamente, il racconto delle vicissitudini e delle avventure che Earn affronta per convincere suo cugino ad assumerlo come manager, nella speranza di sbarcare il lunario e assicurare un futuro a lui e alla sua famiglia. Attorno ai due protagonisti ruotano una totalità di personaggi secondari tra cui spicca Darius, il coinquilino di Al, il personaggio probabilmente più spassoso della serie, la cui attitudine alla vita assolutamente serena e vissuta alla luce di precetti filosofici stona con la frenesia della vita di Earn.

Le vere protagoniste della serie tv sono però extra-umane: Atlanta con la sua arte, la sua criminalità (lo stesso Paperboi è spesso nei guai con la legge), le sue disparità sociali; e la musica. La colonna sonora della serie, che comprende solo pezzi scritti da musicisti di Atlanta (da DRAM e gli Outkast ai Funkadelic), occupa un ruolo centrale all’interno della struttura narrativa, accompagna i momenti centrali e apre e chiude ogni puntata con un pezzo musicale diverso che in qualche modo fa da prologo ed epilogo al soggetto della puntata.

Tutto questo fa sì che la serie non appartenga a nessun filone esistente: non è una serie comedy sebbene faccia sghignazzare, non è una serie-musical sebbene la musica sia un elemento fondante, non è una serie black-drama sebbene contenga motivi di riflessione e colpisca al cuore in alcuni punti. Atlanta è semplicemente l’esplorazione dei temi che in quel momento sono cari a Donald Glover attraverso un mezzo originale.

La serie, sebbene segua un filone narrativo, appare frammentata (l’unico vero topos ricorrente sono gli escamotage che Glover utilizza per mostrare la scritta Atlanta in maniera diversa ad ogni puntata, come una couch gag simpsoniana) e corale perché il nucleo del progetto non sta nel raccontare una storia ma nel mostrare cosa significhi vivere ad Atlanta, cosa voglia dire essere disoccupati e soprattutto quanto difficile sia il percorso che porta un rapper alla fama e quanto facile sia perdere la propria occasione per via della criminalità e del contesto sociale difficile che porta gli afroamericani ghettizzati a reagire in modo criminale alle provocazioni e alle difficoltà.

Ma la serie serve anche a svelare in maniera ironica i paradossi del music-system: l’obiettivo di Paperboi di diventare famoso, nel secondo episodio, diventa a portata di mano quando esce di prigione e si inizia a parlare di lui, in altre parole, il fatto che sia un criminale rappresenta un boost imprescindibile per far conoscere il suo mixtape; l’unico modo che Al ha di inseguire il proprio sogno è di spacciare mentre compone la sua musica perché è il modo più facile per avere quel denaro necessario a incarnare lo stereotipo del gangster. Tutto è però raccontato in maniera ironica e tagliente nonostante il tema sia in realtà serissimo.

Come Montalban sfrutta le indagini di Pepe Carvalho come pretesto per raccontare luci e ombre di Barcellona, così Glover utilizza Earn e la sua voglia di riscatto per raccontare Atlanta, la sua musica e i suoi enormi problemi sociali visti dalla prospettiva di chi si sente un escluso: “Continuo a fallire. Voglio dire, alcune persone sono destinate a fallire anche solo per bilanciare la Terra”, dice Earn di se stesso.

La musica in Atlanta è una croce e una delizia: una delizia perché rappresenta per molti l’unica possibilità di emergere, perché la città sembra essere una fucina musicale incredibile (soprattutto per quanto riguarda la scena rap); croce perché i rapper sembrano essere disposti a tutto per affermarsi e perché sembra davvero che la musica sia inscindibile da un modello a cui aspirare che ha come caposaldo un’ostentata criminalità, quella patina da thug life che ne compromette l’essenza.

“The music business is gross”

Da tutto questo sembra volersi allontanare Chilidish Gambino. L’obiettvo è trovare un nuovo modo di fare musica che mantenga il gene della tradizione black ma che, allo stesso tempo, non si rifugi nel gangsta rap e che permetta di veicolare il messaggio musicale in maniera efficace e originale. Sembra che la scelta stilistica di Awaken, My Love! provenga da un’analisi puntuale della scena musicale in cui Gambino è cresciuto e da una critica della stessa che l’ha portato a concepire uno stile diverso. La prima stagione di Atlanta può essere interpretata come la resa televisiva di tutto quel ragionamento che aveva preceduto la produzione del suo disco più importante.

Nel 2018 Childish Gambino pubblica un singolo apparentemente estemporaneo, in quanto slegato da ogni logica di promozione visto che non sembra essere l’anticipazione di alcuna imminente uscita discografica. Viene pubblicata This Is America, canzone che ha definitivamente fatto conoscere anche al pubblico italiano Childish Gambino. Il singolo è un pezzo dall’incredibile impatto che denuncia le difficoltà e i soprusi che devono subire ogni giorno gli afroamericani che vivono negli States di Donald Trump. Incanalandosi perfettamente nel flusso del Black Lives Matter, Gambino accusa gli U.S.A. di essere fortemente razzisti, complici nelle disparità sociali che coinvolgono le cosiddette minoranze con un particolare focus sugli afroamericani. Lo fa attraverso il testo della canzone e attraverso un video incredibilmente potente che diventa virale in pochissimo tempo e rimbalza su ogni piattaforma di divulgazione giornalistica del mondo. Il video, ricco di citazioni, fa riferimento alle stragi ai danni degli afroamericani, alla violenza a cui si è sottoposti ogni giorno. Il video è sconvolgente, spaventoso, ipnotico e apertamente schierato. Il 2018 è l’anno in cui Glover decide di affrontare il tema del razzismo made in U.S.A. Certo, è un tema che aveva già affrontato con la sua musica ma mai in maniera così aperta e dura. Certo, era un tema che già aveva trovato spazio nella prima stagione di Atlanta ma non in maniera così diretta come farà nella seconda serie.

Per completare lo scenario aperto da This Is America, Donald Glover dirige la seconda stagione di Atlanta, affermando da subito che non si tratterà di un semplice seguito della prima, infatti non si chiamerà Atlanta 2 ma Atlanta Robbin’ Season.

L’idea di collocare temporalmente in un preciso momento dell’anno la seconda parte della serie risponde a un chiaro intento programmatico di Glover. Il tema stavolta è l’inferno in cui vivono gli afroamericani ad Atlanta (ma in generale negli States). La Robbin’ Season, come spiega Darius nella prima puntata, è quel periodo che precede il Natale in cui si verifica un numero incredibilmente alto di rapine e furti un po’ per procacciarsi il denaro necessario per festeggiare, un po’ perché è un periodo in cui le tasche dei lavoratori si rimpinguano in vista dell’acquisto dei regali. La tempesta perfetta della criminalità. Donald Glover decide di collocare dieci delle undici puntate (la decima è un flashback nell’infanzia di Earn e Al che però non si allontana dall’obiettivo di esplorare il tema ma anzi rende l’associazione afroamericano-difficoltà quasi un’ovvietà data per scontata) nel periodo più infernale dell’anno in cui le difficili condizioni sociali sfociano in un’anarchia criminale terrorizzante dall’esterno ma assolutamente accettata dai protagonisti: c’è la robbin’ season, poi c’è natale, poi capodanno. È il ciclo naturale delle cose.

Il contesto temporale apre le porte al vero tema della stagione che non è più la città di Atlanta, non è più la musica, non è neanche il tentativo di Earn di assicurarsi la fiducia di Al (o meglio non lo è nella misura in cui venga preso il tema estrapolandolo dal resto). Il vero soggetto di Atlanta Robbin’ Season è lo struggle, la battaglia che ogni giorno gli afroamericani devono affrontare per sopravvivere e vivere: Earn viene sfrattato dal garage in cui dorme nel primo episodio della serie e ben tre personaggi sono totalmente dipendenti da Al, l’unico che sta riuscendo a sfondare di loro, e sono economicamente dipendenti dal suo successo.

Il loro Paese, quello in cui vivono, è il vero antagonista nella lotta che affrontano ogni giorno: nel terzo episodio Earn sembra essere l’unico a stupirsi del fatto che un afroamericano con una banconota da 100 dollari, anche se onestamente guadagnati, desti sospetti (“C’è un motivo per cui un bianco vestito come te entra in banca e prende un prestito e tu non puoi neeppure spendere una banconota da 100 dollari”, spiega Al e Earn); la maestra della piccola Lottie paragona la scuola pubblica di Atlanta a un macello affermando: “Se vedo un agnellino così furbo da uscire dal recinto, lascio il cancello aperto” ma, allo stesso tempo, i genitori di Lottie non rimpiangono la loro scelta perché in quella scuola la loro figlia non è l’unica nera: “sei stato a Princeton, sai che vuol dire”, dice Vanessa a Earn.

La summa del fil rouge che domina la serie, infintamente più frammentata della prima, è espressa da Al nell’ultimo episodio, in una delle ultime scene: “I negri devono fare tutto il possibile per sopravvivere perché non hanno scelta e neanche noi abbiamo scelta”. Questo è davvero il tema della seconda stagione di Atlanta che, altrimenti, sarebbe composta da episodi apparentemente slegati, con soggetti sempre diversi (un episodio è interamente incentrato su Vanessa e un altro totalmente su Darius) e con una miscellanea di generi che rende l’intera stagione ancora meno etichettabile della prima. Si passa da episodi spassosi a episodi malinconici arrivando anche a girare un episodio quasi horror, il sesto, dal titolo “Teddy Perkins” (che, ancora una volta, ha al suo centro il sacrificio fisico e spirituale come unica via per giungere al successo).

I generi si mescolano e l’abilità di scrittura di Glover che inserisce elementi di riferimento della cultura popolare che, assieme alla musica (che in questa stagione vanta anche la collaborazione di Flying Lotus e Thundercat), forniscono una presa per quel reale che Atlanta cerca di descrivere con le storie dei suoi protagonisti. In Atlanta si citano i meme, come quello dell’uomo-alligatore diventato virale su reddit e che si riferisce a un uomo immaginario autore di surreali misfatti, che rendono attuale la serie e danno un senso di quotidianità alle scene non ponendole in un universo parallelo al nostro.

I personaggi noti dello spettacolo interpretati da loro stessi o da loro fantocci (come il Justin Bieber nero della prima stagione) svolgono lo stesso ruolo. Nella prima stagione c’è un cameo dei Migos (che compaiono anche nella colonna sonora), nella seconda ce n’è uno di Michael Vick che ricopre un ruolo denso di significato per la logica di Atlanta Robbin’ Season. Michael Vick è un ex giocatore di football americano, star degli Atlanta Falcons, che nei primi anni 2000 aveva totalmente fatto impazzire i tifosi per il suo gioco e le sue skill (Vick era un quarterback che correva in meta, un po’ come un portiere di calcio che tira le punizioni e le segna). All’apice della sua carriera, però, Vick viene squalificato dalla lega, la NFL, processato e incarcerato perché organizzava in casa sua dei combattimenti illegali tra cani. La parabola di Michael Vick fa sì che la sua presenza nella serie tv non sia casuale ma serva da promemoria e da esempio per ricordare a tutti con quale facilità la criminalità in cui si cresce può sempre riaffiorare e mandare all’aria il cammino di un predestinato che avrebbe solamente dovuto fare ciò che gli veniva naturale fare.

Le due serie di Atlanta sono un magnifico esempio di come l’arte possa svolgere il ruolo di pensiero a voce alta. Le due stagioni sono dichiaratamente il modo che Donald Glover ha pensato per poter analizzare un problema. La frammentarietà della struttura risponde a questo modo di riflettere in uno stream of consciousness tenuto assieme da una trama nel complesso abbastanza semplice i cui temi introdotti sono, però, di una complessità e di un’attualità incredibili.

Exit mobile version