Un abbraccio. Un gesto di affetto, semplice. Niente sangue, nessun simbolo politico o azione violenta di protesta. Solo un abbraccio tra ragazzi. Eppure ha una tale silenziosa forza reazionaria che è capace di racchiudere le speranze e le difficoltà che hanno vissuto i giovani e non, di tutto il mondo, all’alba del Sessantotto. Quando davanti a loro non c’erano molte scelte: sottomettersi al modello americano consumistico, alienante e socialmente ingiusto oppure opporsi e agire per rivoluzionarlo. Così si unirono in una protesta studentesca che partita da Berkley negli Stati Uniti e approdata a Parigi con lo slogan “Fantasia al potere” è proseguita in tutta Europa e ha definito l’assetto sociopolitico dell’epoca moderna.
L’abbraccio di due Giovani innamorati incorniciato dalla tensione delle giornate del maggio parigino, o quello dei sofferenti Addii a Francoforte. Due opere dell’artista e politico siciliano Renato Guttuso che sono esposte alla Gam – Galleria civica d’Arte moderna e contemporanea di Torino per la mostra Renato Guttuso – L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ‘68. Se, infatti, è passato mezzo secolo dalla creazione di quelle opere, basta riconoscerne i tratti per risentire forti gli echi delle speranze delle spinte libertarie che, partite come moti studenteschi, hanno preso in breve le sembianze di contestazioni di massa. Una forza propulsiva che dal basso ha invaso tutti i livelli dell’arte, prestando alle battaglie contro i pregiudizi socio-politici, contro la borghesia i linguaggi più astratti dell’arte: dalla pittura alla musica, dagli striscioni alla fanzine e ha consegnato, in forme propagandistiche, una nuova chiave al rapporto tra politica, società e cultura.
E Guttuso è indiscutibilmente una delle figure chiave del periodo, dato il valore del suo impegno sociale e politico che attraversava l’arte per trascenderla. Perché, come scrisse sulla rivista Rinascita nel 1967, in occasione dell’anniversario della rivoluzione d’ottobre, chiudendo l’articolo intitolato Avanguardie e Rivoluzione: “L’arte è umanesimo e il socialismo è umanesimo”. Un monito che ha sempre seguito nella sua storia artistica, da esponente antifascista e successivamente comunista, sin dalla vigilia della Seconda Guerra mondiale, negli anni Trenta quando dipinse Fucilazione in campagna (1938), ai moti del’68 che ha seguito da vicino a Roma, città in cui insegnava all’Accademia di Belle Arti, a Parigi dove dipinse il Giornale murale nel maggio dell’anno infuocato e in Germania, quale professore ospite ad Amburgo.
I rimandi sociali e politici lo accompagnano fino alla metà degli anni ’70 quando su dei pannelli realizzò il maestoso Funerale di Togliatti, che fu poi esposto in via delle Botteghe Oscure a Roma, nella sede centrale del Partito Comunista Italiano, lista con cui alcuni anni dopo è eletto Senatore della Repubblica nel Collegio di Sciacca. Tra le bandiere rosso acceso, colore che lega le opere di Guttuso, nel corteo funebre ci sono le persone: numerosi volti – tra i ventidue diversi, anche quelli di Lenin, Berlinguer, Gramsci, Iotti, Ingrao, Alicata e Stalin – che hanno scritto la storia di quegli anni, ripetuti tra la folla come per amplificarne la forza simbolica.
Un’opera che oltre all’attivismo politico e all’ideologia di Guttuso, racconta il suo modo di comunicare al pubblico con un universo di simboli e di messaggi. Una comunicazione completa, lontana dalla tentazione di disegnare per replicare il mondo, perché “la pura riproduzione non esiste e non è interessante”. Nel suo continuo sperimentare e nella sua carriera, ancora oggi si può sviscerare questo rapporto che ricreava con le sue opere, legato a doppio filo con il pubblico, raccontando il mondo che lo circondava – “mi piacerebbe dipingerlo tutto” – cercando però sempre di essere “sufficientemente potente e sorprendente, anche quando fai la cosa più semplice del mondo”. Una chiave, quella di stupire con la naturalezza delle immagini e dei messaggi, che accomuna i linguaggi artistici del periodo. Abbandonando l’idea di opera d’arte chiusa per aprirla ai fatti sociali, al mondo circostante, alla lotta per l’uguaglianza, alla negazione della corruzione, alla rivolta verso i privilegi e contrapporla alla violenza degli scontri nelle piazze e delle rivolte. Con esponenti, come Piero Gilardi, che erano soliti affiancare all’arte la militanza politica.
Il punto di partenza, però, è chiedersi: esiste un’arte che riesca, in maniera univoca, a incarnare il periodo? Ci si riprendeva dalla nascita dell’industria culturale, del prodotto artistico in modalità riproducibile, della mancanza di anima della merce “feticcio”. E la necessità di dare importanza alle idee, prima che alle forme, ha influito sulle espressioni di artisti di tutto il mondo. Ma di influssi ce ne sono stati diversi, tendenza che riflette la differente importanza che gli anni ’60 hanno avuto negli sguardi di chi li racconta, dando vita a scuole di pensiero diverse.
Nell’arte concettuale che si sviluppa negli Stati Uniti dalla metà degli anni sessanta e prende vita da influenze dadaiste, restando in auge poco più di un decennio, le idee superano addirittura la percezione estetica dell’opera oltrepassando la necessità di una tela. La definizione “concettuale” fu usata da Joseph Kosuth, creatore di Una e tre sedie (in cui espone una sedia vera, una foto della sedia e la definizione scritta della parola “sedia”) intorno alla metà degli anni Sessanta, e si riferiva allo studio del concetto e alla ricerca dell’artista degli effetti che potrebbe avere. E proprio nella riflessione tra realtà e oggetto – forse per l’eredità di Marcel Duchamp o forse per la reazione alla commercializzazione dell’estro artistico, forse per entrambe le cose – che risiede il senso artistico.
Il filone concettuale, nonostante sia ancora legato agli oggetti, declina anche le esperienze nell’ambito artistico. Sia la performance di creare l’opera che quella di viverla, trascendendo dalla necessità di creare qualcosa che rimanga. Accanto a esponenti dell’arte concettuale come Lawrence Weiner e Joseph Beuys, italiani quali Giulio Paolini, Gianni Pettena e Franco Mazzucchelli con i suoi gonfiabili. E artisti come Bruce Nauman con il live-taped di Video corridor, diversi video che realizzò tra il 1967 e il 1968 in cui si riprendeva nel suo studio mentre eseguiva vari esercizi ripetitivi e pratici, come camminare lungo il perimetro di un quadrato delineato. E partecipò alla Conceptual art arte povera land art alla Gam di Torino nel 1970 di Germano Celant.
Proprio Celant con la mostra alla Galleria La Bertesca di Francesco Masnata a Genova, nel 1967 raccolse per la prima volta gli esponenti del gruppo dell’arte povera che si stava delineando accanto a tendenze più pop che interessarono artisti come Mario Schifano – rappresentativo è Festa Cinese nel 1968, dal forte rosso contestazione – Franco Angeli o il leccese Fernando de Filippi. Tra gli esponenti dell’arte povera, Michelangelo Pistoletto, famosa la sua Venere degli stracci o Mario Merz con i suoi igloo e tubi al neon. Oltre a Alighiero Boetti, tra i primi a distaccarsi dal gruppo, Giovanni Anselmo con la provocatoria Scultura che mangia in cui utilizzò della lattuga reale, Pier Paolo Calzolari nella cui arte è ricorrente il concetto di trasformazione, usando materiali come ghiaccio, margarina e piombo fuso. Ma anche Jannis Kounellis (che introduce nell’opera un pappagallo vivo), o lo scultore Luciano Fabro, che realizzò per la serie Italie un’Italia Capovolta. Come confermano le opere, si trattava di una povertà innanzitutto dei materiali, dalla terra, tubi, legno, stracci, scarti usati per le installazioni che dovevano rompere l’equilibrio, riducendo i segni artistici al minimo. Così da abbattere il conformismo e contrapporsi all’arte tradizionale.
L’arte povera fu un movimento per lo più torinese, dove prese il sopravvento. Quella semplicità dei messaggi e dei mezzi invase la città che oggi sta omaggiando Guttuso. Con uno stile curato da Giovanni Castagnoli per invitare a riflettere e raccontare un mondo che mai come oggi, nel periodo degli estremismi e del ritorno dei moti totalitaristici, sembra distante non solo temporalmente. Perché, come diceva Guttuso, “non nasce tutto in prima, riprendi e modifichi”, anche le rivoluzioni.