“L’arte di legare le persone”: l’atlante del dolore di Paolo Milone

Per diventare psichiatri basta avere un genitore, un nonno, un po’ matto, anche un pochino,
e volergli abbastanza bene.
I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene
– l’ultimo dopo un milione di uguali –
per questo noi stiamo dall’altra parte della scrivania.

La scrittura autobiografica che si legge in “L’arte di legare le persone” di Paolo Milone (Einaudi) è una rarità. C’è la struttura solida di un romanzo che ha un protagonista, alter ego dell’autore, e la narrazione dei suoi incontri con eroine ed eroi atipici; c’è anche un antagonista, alcuni alleati e un lunghissimo cogitare in solitaria in una forma atipica e affascinante: puro memoir in alcuni frangenti, poesia in altri. Quello che rimane al centro di questa prosa poetica e volutamente frammentata è l’esperienza di una vita, quella di Milone stesso, medico al servizio della Psichiatria d’urgenza per quarant’anni a Genova, sua città natale. Sembrerebbe un tema lontano dalla quotidianità, ma a lettura inoltrata si scolpisce nella mente quella distanza di «un tiro di dadi» dalla malattia e non va più via. Quando dicono che quella autobiografica o dell’autofiction, è una scrittura claustrofobica, o che, peggio, si esaurisce all’interno di un solo modo di vedere gli eventi, quelli dell’autore, basta pensare a questo romanzo per cambiare idea: qui si raccontano mondi interi che si inseguono, si scontrato per un caso del destino e si sovrappongono con furia a volte, delicatezza in altre. Questo è il destino di uno psichiatra: incappare nella vita altrui quando è già sprofondata nella malattia, o «abisso» come lo chiama Milone, sanarla per quanto possibile e, nei casi più ispirati, anche renderla visibile con la letteratura. Gli ultimi, quelli che chiamano ancora matti, trovano il loro spazio in questa prosa poetica e rispettosa del dolore di tutti perché Milone, con le sue schegge di storie e riflessioni grandi quanto il mondo, insegna a chi lo sa capire quanto sia complessa e delicata la psichiatria. La voce di Milone emerge, ovviamente, nel protagonista, ma lascia un po’ di sé in quasi tutti gli altri personaggi, compreso il distratto Rufo, l’anziano luminare, le nuove reclute che lo affiancano negli anni di lavoro, le infermiere, gli infermieri e ogni paziente in cui si specchia.

[…] io sono una specie di pompiere.
Comincio a lavorare quando qualcuno sta tanto male che non ricorda come si chiama.
Sta tanto male che non sa dire da dove viene, né sa raccontare cosa è successo.
Sta tanto male che non capisce dove si trova.
Questa gente perduta, come in un incendio o in alto mare, io la vado a prendere.
E come fai?
Improvviso.

Nel libro non ci sono metafore oscure o mercificazione del dolore, ma si costruisce una finestra sull’ignoto in punta di piedi perché la malattia mentale è sacra tanto quanto i tentativi di un medico di arginarla. Ma la ricerca di una cura è come arginare il mare: “L’arte di legare le persone” insegna quasi subito che non c’è un modo unico e scientifico per emergere da questo mare sani e salvi, ma ci saranno solo risacche che potranno essere confinate. E quando succede l’argine potrà resistere anche a lungo, ma mai per sempre. Questa realizzazione è al contempo salvifica e spaventosa. Salvifica perché deresponsabilizza il paziente, non esiste una pigrizia o la non volontà di guarire in psichiatria; spaventosa perché l’ineluttabilità del dolore psichiatrico entra in risonanza con le ferite personali di chiunque, persino dei granitici sani. L’unicità di Milone sta nell’aggiungere a sollievo e paura, il conforto del rapporto umano.

Il protagonista è un medico empatico e attento, un uomo che si interroga, che prova senso di colpa quando perde i pazienti, che difende scelte cliniche con lucidità, ma che sa che tutto può essere messo in discussione anche domani. La diatriba del legare i pazienti, per esempio, pratica discussa che Milone racconta e argomenta con sincerità e pacatezza, porta valanghe di domande con sé: in psichiatria dove finisce la libertà del paziente e inizia quella del medico? Ma anche dove finisce il paziente e dove, invece, inizia la malattia? Perché quelle psichiatriche, come anche alcuni disturbi psicologici, sono malattie totalizzanti, invasive, funeste, che prendono in giro, che fanno infuriare, che illudono nei momenti di calma e poi beffano quando ci si convince che il peggio è passato. E il rimorso di un medico che sente di non aver colto i segnali di allarme è terribile. Ma come avrebbe potuto? Non esistono manuali o soluzioni univoche. Eppure il medico «pompiere», che in qualche modo deve andare a recuperare pazienti in quella melma magmatica che affonda la percezione del sé e del mondo, si avventura ogni volta ancorandosi alla realtà come può. Nel romanzo la realtà dipende da un glicine: se l’albero c’è, Milone è sicuro di poter tornare a galla senza perdersi nei vuoti comunicativi altrui.

E intanto la comprensione della malattia mentale si stratifica a ogni storia. Il sistema di schegge narrative di Milone, come lui stesso le ha definite, fa sì che siano lettrici e lettori a mettere insieme le storie, a contrapporre le esperienze, a individuare il centro emotivo delle piccole narrazioni e la loro ragion d’essere nel romanzo. Ma l’impatto di questo lavoro mentale di fili rossi da ricongiungere può essere complesso. “L’arte di legare le persone” è un romanzo pronto a fiaccare anche gli animi più scettici davanti alle storie dei pazienti, alle lotte corpo a corpo per somministrare i tranquillanti, agli addii travestiti da arrivederci, ma anche davanti alla tenera consapevolezza che nei silenzi e nell’apparente nulla che la malattia induce nella mente umana, si sta comunque «andando benissimo». E quando il paziente psicanalitico si illuderà di trovare un futuro roseo più probabile, ecco che Milone sorprende ancora con episodi furiosi, incomprensibili e straordinari. Come è straordinaria, fra tante, la storia di Luisa, che nel giorno del suo ricovero coatto strepita «ringhiando come un orso» in una casa/tana invasa dalla spazzatura prima, e poi nei corridoi dell’ospedale, lanciando lettighe e sputando addosso ai malcapitati che provano a placarla. La stessa Luisa, il giorno dopo, risponderà piangendo alle domande di Milone con una lucidità momentanea straziante: «mi avete fatto uscire di casa con una ciabatta diversa dall’altra!»

Quello psichiatrico è un mondo di patologie che scardina molte sicurezze dell’animo umano, per questo si sceglie di non vedere sperando segretamente che tutto si possa risolvere con un buffetto affettuoso e un “andrà meglio”, “pensa positivo”, “non ci pensare!”. Ma se c’è un concetto che questa lettura insegna è riconoscere che la malattia è presente nel quotidiano di tutti e se l’abisso raccontato da Milone sembra così spaventoso è solo perché sono le punte aguzze e visibili di iceberg di dolore raggrumato e gelato da indifferenza e superficialità.

Tra un paziente da rincorrere, riflessioni sull’esistenza umana, la malattia e la cura, Milone sa anche raccontare la professione, la vita privata di medico, la sua Genova bellissima e sa persino ritrovare la vena comica nei pazienti che fuggono in pigiama e piedi nudi correndo verso una libertà che non esiste. Ma soprattutto questo esordiente atipico sa raccontare la fatica dei malati, che convivono quotidianamente con un fardello ingombrante che non hanno mai voluto per sé. Quello con la malattia mentale è un corpo a corpo quotidiano, una infinita partita a scacchi con i propri pensieri e l’alterazione della realtà che ne deriva. Ma poi, a dirla tutta, qual è la realtà: quella dei sani che non vogliono vedere o quella dei «matti» a cui ordiniamo di nascondersi?

Ma a te, che non guarisci mai,
non resta che tentare di credere, tra il bisogno e la paura.
Facile credere per i sani, che non credono a nulla.

Come si può, allora, recensire questo romanzo? Come si fa a scriverne come se fosse solo uno catalogo di storie? Non si può, non si possono dare stelle o suggerimenti veloci da social network; con “L’arte di legare le persone” ci si può solo fermare a pensare a queste menti rese irriconoscibili e imparare che la malattia trasfigura l’umanità dell’individuo e sa trasformare in belve feroci o esseri eterei, ugualmente malandati nello spirito e nella carne. È impossibile rimanere indifferenti, così come è impossibile non chiedersi, in ogni pagina, quale destino benevolo ha impedito che succedesse proprio a te. Ma l’insegnamento più prezioso sta nella scrittura, perché avrebbero dovuto insegnarci prima che le parole per raccontare questa perdita di umanità esistono e sono quelle che Milone ha usato e reso poetiche per uno strano scherzo del destino.

La poesia non frequenta la Psichiatria, si ferma sulla soglia.
Dove non entra la vanga della poesia, zolle dure secche, infertili e fredde.
Noi ci occupiamo del dolore impoetico.
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