Parole e immagini di Pier Iaquinta e Lorenzo Pasquinelli
INVERNO FEST – DAY #1
Una cosa è certa, all’Inverno Festival ci si diverte, parecchio. Questa terza edizione, organizzata come sempre da quei ragazzacci del No Glucose Festival in collaborazione con il Covo Club di Bologna, non è stata da meno. I presupposti, del resto, sono sempre rassicuranti, contando che al Covo non è raro ascoltare musica fatta come si deve e questa versione invernale del No Glucose, altro speciale appuntamento della primavera bolognese (nel cast dell’ultima edizione con Ducktails e Soviet Soviet), hanno dimostrato ancora una volta come si possa fare festa mettendo davanti a tutto la musica. Un passo costante dimostrato dalla presenza di headliners come IDLES e The KVB che alzano decisamente l’asticella. La musica, però, rimane al centro dell’evento insieme alla presenza di mercatini di musica, t-shirts e merchandising.
Ad aprire la serata insieme ai parmigiani Lourdes Rebels, sono stati i DOTS e il loro garage rock molto aggressivo, in cui il pezzo forte è il loro frontman dalla verve eccentrica che scalda l’ambiente dimenandosi sul palco. A seguire, in questo mood leggero e scanzonato, arrivano i mantovani Bee Bee Sea, presentando il loro ultimo album Sonic Boomerang uscito a fine 2017, vera e propria sorpresa della serata. Con le loro ballate garage rock, semplici e lineari, fatte da lunghi cori danzerecci, si prendono la platea. La qualità di queste band conferma la nostra idea sull’attenzione che l’organizzazione ha prestato al festival prima che arrivi il piatto forte della serata, rappresentato dagli IDLES, alla loro prima data italiana e che non poteva, probabilmente, andare meglio per questa band dai tratti hardcore ma che rifiuta l’etichetta di post-punk e che in questa circostanza ha mostrato tutta la loro forza. Joe Talbot e gli altri ragazzi venuti da Bristol suonano insieme dal 2012, come si nota dal loro affiatamento, che si riversa su una presenza scenica notevole. Si vede la strada che li ha portati per pub e club inglesi e, dopo 7 EP, a pubblicare solo nel 2017 il loro primo album, Brutalism, lavoro d’esordio acclamatissimo dalla critica inglese. Nel live esplode la loro rabbia e allo stesso tempo un certo tipo di ironia che riversano
inevitabilmente sul pubblico durante l’esibizione. Un concerto pensato per far ballare il pubblico, visto il modo in cui pestano parecchio forte sin dalla prima traccia, generando un pogo che non si è fermato neanche un minuto. Delirio generale sulle note di Mother, con un botta e risposta tra Talbot e la platea a suon di motherfucker. Tanto scatenati da gettarsi sulla folla, tra uno sputo l’altro, che cantava e urlava insieme a squarciagola con uno stage diving da manuale, riprendendo e onorando tutta la tradizione punk da cui provengono. Una band di grande esperienza, che fa sul serio dal vivo e che mi piacerebbe rivedere presto in Italia, del resto sembra si siano trovati parecchio bene, svelando anche una certa dimestichezza con l’italiano.
Venerdì sera era molto freddo, fuori, dentro i muri del Covo invece non pareva nemmeno febbraio. Bella gente, una serata davvero piacevole, nonostante abbia dovuto buttare le scarpe tanto si è pogato e ballato.
(Pier Iaquinta)
INVERNO FEST – DAY #2
Sopravvissuti alla violenza garage punk del primo giorno dell’Inverno Fest torniamo al Covo di Bologna con ancora qualche osso rotto per il secondo appuntamento. Oggi le chitarre scorticate e sudate degli Idles lasciano il posto ai synth, loop station e sonorità più cupe ed elettroniche.
Si comincia con il synth punk in italiano di Alberto Almas su cui, con un solo brano reperibile sul web e l’album di esordio in uscita a breve, la curiosità è tanta e devo dire che le aspettative sono subito rispettate. Il cantato in italiano richiama realtà ben più consolidate come Felpa e Tante Anna, anche se vengono rivisti e inaspriti da un punto di vista musicale, creando uno scenario musicale che sicuramente troverà ampio spazio in Italia nel corso del prossimo anno.
Con i Rijgs il panorama cambia notevolmente. Noise, psichedelia, kraut, post rock, minimalismo e quella brezza che ti anestetizza la pelle tipica delle campagne emiliane. I banchi di nebbia che escono dalla chitarra compongono il loop infinito di Comet, che trasmette la stessa quiete intrisa di malinconia del mare d’inverno. Una quiete che viene spezzata dal batterista che, nel momento più alto del concerto della band bolognese, quasi come se suonasse in un quartetto jazz, inizia a scomporre le battute con un assolo di diversi minuti sorretto dai loop di chitarra. Rimaniamo tutti sorpresi da questi giovani Sonic Youth, a cui auguriamo di trovare più spazio in futuro, perché davvero se lo meritano.
È il momento degli His Electro Blue Voice, eredi italiani di band come Melvins e Killing Joke. Il batterista conta fino a quattro e tutta la violenza del trio di Como si scatena sulle nostre orecchie. Crystal Mind e Jaws abbattono il muro del suono e i muri del Covo. Le pareti si fanno più sottili e si chiudono sempre di più in loro stesse. La sensazione che si ha è quella di quando ascoltiamo in cuffia una canzone potente ed eccediamo col volume, ma eccediamo veramente, fino a che le orecchie non fanno male, fino a che ogni pensiero sparisce. Tutto sparisce come in un buco nero sonoro e rimaniamo soli, racchiusi dentro 4 mura umide, guidati inermi da una batteria feroce che crea strutture semplici e lineari come la semplicità con cui Jack lo Squartatore affondava le lame nella pelle delle sue vittime. Queste strutture tanto immediate quarto feroci vengono distrutte dalla chitarra che, con la sue dissonanze, cancella ogni linearità. La voce, sovrastata dal muro di suono a malapena si sente, nonostante il volume altissimo (ce ne siamo accorti a metà concerto di quanto fosse alto in realtà, quando in una breve pausa il cantante ha chiesto al fonico di alzargli la spia), un urlo nascosto che ti sussurra per tutto il concerto nelle orecchie sanguinanti.
Finita l’ora d’aria della band possiamo constatare che la loro è senza ombra di dubbio musica non adatta a deboli di cuore. E purtroppo il pubblico del Covo non era forse del tutto preparato ad affrontare i HEBV, visto i timidi e santuari accenni di pogo nonostante una performance fuori dagli schemi. Saranno forse stati contenti i primari dell’ospedale Maggiore per aver impiantato pacemaker a metà del pubblico dopo il concerto.
Passiamo ora al momento più atteso della seconda giornata dell’Inverno Fest e forse anche il momento più deludente di tutto il festival, lo show dei KVB. Dico questo perché la terza edizione dell’Inverno Fest ha regalato veramente tantissime sorprese, nuove scoperte e tanti tanti lividi. Non è di certo facile suonare come headliner il giorno dopo un concerto come quello degli Idles con ancora buona parte del pubblico che canticchia ritornello di Date Night. E di sicuro chi si aspettava uno spettacolo altrettanto coinvolgente sarà rimasto deluso, non tanto per colpa di carenze tecniche o la minore qualità musicale del duo londinese, anzi. Piuttosto per una capacità di infiammare il pubblico inarrivabile, per quanto riguarda gli Idles, e piuttosto fiacca, per i KVB. Ma non per questo abbiamo assistito a un brutto concerto, anzi, lo ripeto, il duo inglese ha incantato il covo con il suo shoegaze vestito da un velo di dark.
I pedali controllano la chitarra di Nicholas Wood, i sintetizzatori e la drum machine di Kat Day i piedi degli spettatori. L’atmosfera si fa subito ipnotica e rarefatta. Luci strobo, geometrie psichedeliche proiettate sulle pareti, riverberi che rimbalzano sui muri e fanno timidamente danzare il pubblico. I due musicisti, chiusi in loro stessi, con Always Then e White Walls fanno rivivere al pubblico un eco dei Joy Division. Never Enough è invece un sogno ricorrente, sfumato, annebbiato, che ti torna in mente dopo giorni, un sogno che non capisci perché ti mancano dei pezzi, ma che comunque ti affascina. Never Enough, come tutto l’album Of Desire, del resto, è un calderone zeppo di sensazioni ed emozioni dissolute, che ti sfiorano la pelle fino a farti irrigidire ogni singolo pelo, ma sono emozioni che non si riescono a distinguere le une dalle altre, costringendoti ad accettarle così come sono. Quello degli KVB è un mix di shoegaze e techno minimale, di brit pop e new wave, un sound che racconta un po’ la storia del rock britannico dagli anni ’80 in avanti, e ne raccoglie le sfumature migliori. Chiudono con la cover di Symphaty for the Devil dei Rolling Stones, trasformando a tutti gli effetti il concerto in un tributo della musica brit, delle sue chitarre nervose e brillanti, e di quella capacità del rock inglese di saper far ballare il pubblico.
Termina così la terza edizione di un festival che si conferma, grazie al coraggio delle scelte artistiche, uno degli appuntamenti più interessanti dell’anno, non solo di Bologna. Un appuntamento imperdibile per rendersi conto che la scena italiana, concedetemi di dire quella “vera”, quella più underground, quella delle band che purtroppo troppo spesso fanno fatica a farsi conoscere al di fuori della propria città, se non addirittura al di fuori della propria saletta, è una scena più viva che mai e con tantissimo potenziale. Ma è anche un’occasione per vedere dal vivo band straordinarie e potenti, come Idles e KVB, in un contesto intimo e caldo come quello del Covo. Una piccola stanza dedicata al rock con le pareti sudate e con il pubblico sempre pronto a utilizzare il palco come trampolino per allenarsi in vista dei campionati mondiali di stage diving.
(Lorenzo Pasquinelli)