Il nuovo album degli Arctic Monkeys ha diviso l’opinione, per questo abbiamo voluto raccontarlo attraverso una doppia recensione. Di seguito trovate i “contro”
“I just wanted to be one of The Strokes
Now look at the mess you made me make”
Tranquility Base Hotel & Casino si apre così, con i primi due versi di Star Treatment che a mio parere sintetizzano nel migliore dei modi il senso di questo sesto disco degli Arctic Monkeys. Più che fare un semplice omaggio agli Strokes, Alex Turner sembra quasi voler giustificare l’uscita di quest’album: forse non è stata colpa sua, magari negli ultimi anni qualcuno gli avrà fatto il lavaggio del cervello (Miles Kane?) e adesso ha combinato un pasticcio, quando fino a un po’ di tempo fa voleva solo essere uno degli Strokes.
Recentemente, in un’intervista per BBC Radio 1, Turner ha spiegato di non trovare più ispirazione nella chitarra sentendosi invece maggiormente a suo agio al pianoforte, che nella scrittura del disco è stato usato come strumento principale. Ma le grosse debolezze di Tranquility Base Hotel & Casino non sono certo relative all’utilizzo del piano: le prime quattro tracce sono così monotone e ripetitive da suonare come un unico brano lungo un quarto d’ora, mi annoiano tremendamente e pur ascoltandole più volte di fila non entrano in testa né trasmettono nulla. Non ci sono riff né distorsioni e Jamie Cook risulta meno rilevante del turnista Tom Rowley, tant’è che suona la chitarra in solamente cinque pezzi su undici.
La monotonia viene placata parzialmente dai bei giri di basso di Nick O’ Malley in Golden Trunks e For Out Of Five, due tracce dotate di ritmi più veloci e meno prevedibili rispetto alle altre ma pur sempre contagiate da quel sound rétro pop del tutto inedito per una band come gli Arctic Monkeys.
La batteria di Matt Helders scorre lenta e pacata per tutti i quarantuno minuti, ovviamente non è la stessa di due anni fa con Iggy Pop e Josh Homme in Post Pop Depression. Il cantato di Turner inoltre è ben distante da quello di AM, mentre riprende qualcosa dai pezzi più pop degli ultimi Last Shadow Puppets in Everything You’ve Come To Expect. Le influenze principali però arrivano tutte dalla lounge music anni ’70, specie per quanto riguarda i tre brani di chiusura She Looks Like Fun, Batphone e The Ultracheese, dove tuttavia la noia riprende a regnare sovrana.
Chi riesce ad apprezzare questa nuova veste degli Arctic Monkeys probabilmente avrà una conoscenza musicale ben più vasta rispetto alla mia, ma allo stesso tempo penso sia difficile negare che questo disco abbia distrutto il target di quella che è stata una delle più grandi band indie rock degli ultimi quindici anni. Tranquility Base Hotel And Casino sarebbe potuto uscire tranquillamente come secondo lavoro solista di Alex Turner, in cui avrebbe mostrato tutta la sua evoluzione musicale senza costringere i suoi colleghi a doversi adattare al suo sound.
Nulla da recriminare infine all’ottima produzione di James Ford, che però non ribalta il mio giudizio su un album tanto insipido quanto saccente.