L’attesa spasmodica che ha attanagliato tutti per questo nuovo lavoro degli Arcade Fire è stata insostenibile. Migliaia di persone si sono stracciate le vesti prima del tempo, si è gridato al disco dell’anno ancora prima di premere il tasto play e addirittura c’era chi dava valutazioni argomentate senza ascoltare assolutamente nulla, ma ormai è una pratica che sembra esser diventata prassi comune. In ogni caso, hype febbrile o meno, il nuovo disco è giunto e bene o male ha sicuramente il merito di aver spiazzato un po’ tutti, fan e non, con quello che sembra essere un manifesto manierista.
Chiunque ascolti il disco sarà alla ricerca, scavando nei meandri dei ricordi, di milioni di riferimenti e citazioni volutamente infilati e confezionati in quest’opera. Le associazioni mentali si sprecano in un lavoro che sembra proprio voler fare da ponte tra gli anni ‘80 e la contemporaneità : si possono agilmente ritrovare gli ABBA di Dancing Queen, la Randy Crawford di Street Life e il David Bowie di Let’s Dance (il quale ha anche collaborato alla realizzazione del disco); andando in tempi più recenti si potrebbero avvistare i Chk Chk Chk, in particolare nel singolo di lancio, o anche i Goat che solo un anno fa ci hanno spiazzato con una personalissima rivisitazione tribalistica della world music. Citerò solo questi ma si potrebbe continuare all’infinito.
Il lavoro si apre con “Reflektor”, il travolgente singolo di lancio su cui si è basata la riuscitissima campagna pubblicitaria del disco. Si tratta sicuramente del pezzo più immediato, quello che ascolteremmo decine di volte senza stancarci e che ci introduce a tutto il concept dell’opera: Trapped in a prism, in a prism of light / Alone in the darkness, darkness of white / We fell in love / alone on a stage / In the reflective age; la prima strofa ci annuncia che tutto sarà intrappolato in un “prisma di luce”, solo su di un palco, in un’era che “riflette” intesa sia come meditazione che come riflesso di uno specchio capace di condurci in un mondo parallelo (Will I see you on the other side?).
Un mondo parallelo che sarà costituito da progressioni revival molto marcate, giri di basso immediatamente riconoscibili (We Exist richiama moltissimo una Billie Jean di Michael Jackson), di vestiti ricoperti di luccianti paillettes, di strobosfere e di donnine da orribili permanenti che nei cori ci raccontano storie terribili di amore e morte, di anime maledette e di superstizioni con l’allegria cinica della disco di un tempo fusa al glam rock e al revival puro: in You Already Know , ad esempio, troviamo addirittura la voce di un presentatore di qualche bistrot del primo dopoguerra che annuncia il gruppo, il quale si lancia in azzardati tentativi di swing.
Tutto il lavoro possiede un sound solido e convincente, sempre coerente con sé stesso nonostante le diversissime sueggestioni che vengono proposte in ogni brano, mai banali o ripetitive. Ad esempio si riescono a mettere insieme agilmente Joan of Arc, una dichiarazione d’amore verso Giovanna d’Arco, dove il protagonista non è tanto la santa in questione ma colui che coraggiosamente sfida tutti e decide di seguirla, e Afterlife, una piccola riflessione sull’aldilà, facilmente associabile all’imperiosità di Reflektor ma più elegante, con la presenza di cori studiatissimi e controtempi perfetti: due brani che nonostante la profonda diversità non possiamo fare a meno di considerarli come due pezzi di un unico corpus coerente.
La composizione lirica e i testi non sono da meno, anzi, sono probabilmente il punto di forza più alto dell’intera opera: in Here comes the Night Time un testo costituito da immagini estremamente ansiogene e oppressive ci prende per mano e ci accompagna verso l’inevitabile, When the sun goes down, you head inside / Cause the lights don’t work / Yeah nothing works- they say you don’t mind / But here comes the night time: arriva la notte, si chiudono le porte, c’è l’inferno, il paradiso, il giudice, la colpa, il senso di innocenza, tutto amalgamato in un climax inquietante e allo stesso tempo festoso.
Un discorso a parte se la conquista a suon di metriche Euridice: in Awful Sound (Oh Eurydice) troviamo le strofe più forti: I know you can see / Things that we can’t see / But when I say I love you / Your silence covers me / Oh, Eurydice, It’s an awful sound, e subito dopo When you fly away / Will you hit the ground? / It’s an awful sound. Lo stesso “suono orribile” (awful sound) viene usato per descrivere il silenzio dell’amore non corrisposto da Euridice e il rumore che produce il suo stesso corpo che morendo colpisce il suolo. Grandezza.
Questo disco sarà sicuramente oggetto di svariate controversie, sia per le modalità pubblicitarie in cui è stata fatta scatenare l’hype, sia per la scelta di discostarsi completamente dai lavori precedenti e creare un album pieno di contaminazioni e citazionismi di ogni sorta, di derivazioni glam, pop e revival ma anche di squisito gusto letterario. Il disco è solido come una pietra e ci sono solo due atteggiamenti possibili di fronte ad un lavoro simile: l’amore e l’odio. Ho scelto il primo.
Merge, 2013