Non riesco a scacciare dalla mia mente la figura di Arlecchino, nel momento in cui penso ad Arca, lo pseudonimo utilizzato da Alejandro Ghersi sul palco. Al di là della più immediata allitterazione che si ottiene accostando i due nomi, vi sono profonde analogie tra le acque dalle quali entrambi i personaggi attingono a piene mani.
Il tema del doppio, innanzitutto. Se da una parte il lato buffo della maschera carnevalsca -il servo furbo e opportunista- è patrimonio culturale comune, probabilmente molti meno sono invece a conoscenza del fatto che la genesi del nome Arlecchino sarebbe addirittura diabolica: Herla King, personaggio di una saga nordica alla guida di una masnada di creature infernali, o peggio ancora Harlequin, un gigante demone francese. Insomma la riprova di questa natura oscura sarebbe il bozzo della maschera nera, residuo delle corna taurine. Arca dal canto suo è la maschera “indossata” dal producer venezuelano quando va in scena e dietro la quale si concentra un mirabolante sforzo di sintesi fra la sperimentazione più estrema e il recupero invece delle origini: un tentativo, dunque, di costringere due opposti in una monade musicale, mai così evidente e riuscito come in questo terzo album di studio.
Il tratto più innovativo della melodia non è tanto la scelta di schierare la propria voce in prima linea (vi è infatti un precedente quando, adolescente a Caracas, Ghersi trascorse sei anni a cantare sotto l’alias di Nuuro, in un progetto electro-pop) quanto quella di scegliere lo spagnolo come lingua con cui farlo. Questa necessità di ancorare con forza il proprio lavoro al paese di provenienza è esplicitata in un’intervista a Noisey MX : lo spagnolo è l’idioma tramite il quale Arca ha imparato ad elaborare le emozioni, ed il linguaggio con il quale ha visto i suoi genitori litigare fra loro e divorziare. Il risultato è un sublime processo di riconciliazione in cui l’artista, invece di strappare le radici che lo legano alla sua terra, le usa come solide fondamenta per innalzarsi al cielo. Ed è questo il secondo punto di contatto con la maschera carnevalesca, l’appropriarsi cioè della tradizione popolare-culturale, e diventarne simbolo.
In aggiunta, il richiamo al passato atavico fornito dallo spagnolo dona ai vari pezzi un impulso febbrilmente intimista, una sorta di battito cardiaco umano che sembrava sepolto del tutto sotto gli strati violenti del noise devastante dei precedenti lavori. Così in Reverie, l’inizio è un’interpolazione del testo di Caballo Viejo, del compositore venezuelano Simon Diaz, icona popolare. O in Anoche, Ghersi si presenta in tutta la sua vulnerabilità, rimodellando una ballata llanera –tipico canto di lavoro venezuelano- in una melodrammatica litanìa di dolore caldo. Ancora, in Piel: l’accompagnamento musicale è austero, sobrio, quasi minimalista, di certo teso a spianare la strada in modo da poter permettere all’ascoltatore di focalizzarsi sul contenuto trasmesso dalla voce.
La teatralità di cui Arca ama circondarsi, grazie soprattutto alla preziosa collaborazione con il visual artist Jesse Kanda, arricchisce ulteriormente quest’immagine dell’artista-maschera. Osservarlo nel video musicale di Reverie, vestito mezzo torero e mezzo animale, mentre barcolla e inciampa su trampoli di metallo per poi cadere a terra coperto di sangue, offre un esempio nitido di come la sua volontà di comunicare non passi esclusivamente attraverso la musica, oltre ad essere uno spettacolo deliziosamente disturbante. Il travestimento, il nudo, la ferita aperta sono un leitmotiv degli estratti da quest’ultimo lavoro, e combaciano alla perfezione con gli spasmi sonori che si rincorrono di pezzo in pezzo, ignorando volutamente qualsivoglia ritmica costante. Avanguardia estrema, sicuramente, ma anche liberazione catartica di un artista che sposta l’attenzione su se stesso con maturità, non a caso in un album significativamente omonimo.
A questo punto, non pare forse esagerato suggerire che Arca possa essere considerato uno degli esponenti cardine più vitali e rappresentativi, nel panorama experimental-elettronico degli ultimi anni. Dopo aver prestato la sua mano per la produzione di album simbolo altrui (LP1 di FKA Twigs, Yeezus di Kanye West e Vulnicura di Björk) il lavoro di Ghersi sembra degno di un proprio corso di studi, a parte: il suo stile è immediatamente riconoscibile, inimitabile e fondamentalmente tanto padrone di sé da non risultare debitore di influenza alcuna. E se è vero che Arca era una vecchia parola spagnola dal significato di “urna cerimoniale”, Ghersi sta continuando a riempire questo contenitore-maschera con tutte le migliori versioni di se stesso.