Il nuovo album degli Arab Strap è uno di quegli ascolti che si va diffondendo più o meno sotterraneo di bocca in bocca – vale a dire che ne risconosci immediatamente la grazia con cui si attacca e si infila sotto pelle con la bella oscurità dei suoi suoni, a partire da quell’iniziale e morsicante “I don’t give a fuck” con cui si apre la prima traccia di As Days Get Dark. Undici dipinti della band scozzese che ne confermano la classe urticante, gli splendori tenebrosi, l’assalto sonoro, l’ispirazione graffiante dei testi, il sibilo feroce delle chitarre post-rock che si mescolano alla sof-fusa elettronica. Dopo il ritorno dei Mogwai con un disco che è riuscito a sfondare persino i primi posti delle classifiche nel Regno Unito, un altro pezzo di storia della musica di Scozia ha fatto il suo ritorno sulla scena del nuovo anno, e in realtà questa generazione di suoni sembra perfetta per assecondare il ritmo di un periodo ancora particolare, ancora piuttosto fermo (per quanto riguarda la musica live specialmente), e che accentua il bisogno di scosse dure e decise. As Days Get Dark ha proprio quella dose di carica dura e ossessiva di cui si potrebbe andare in cerca. È quindi naturale che questo disco si diffonda pure con il passaparola, e che valga la pena soffermarcisi all’ascolto, che vada consumato, iniettato, assecondato. Ma consumare As Days Get Dark resta comunque un’esperienza che se fatta a piccole dosi permette di soffermarsi anche meglio sulle tracce, assaporarle, lasciarsi trascinare dalla bella dipendenza di un pezzo breve e immediato come Bluebird, perdersi nell’arpeggio electro-wave di Kebabylon, sprofondare nell’abbaglio dark di Here Comes Comus!
Avevamo lasciato gli Arab Strap a The Last Romance, titolo apocalittico di un album uscito nell’ormai lontano 2005; li ritroviamo in forma, la voce di Aidan Moffat è in forma, così come la mano di Malcolm Middleton, ed è facile arrivare a perdersi tra le curve dissolute di un altalenato spoken word, le atmosfere crude che avvolgono e stravolgono i suoni in continue convulsioni, le parole che vibrano scivolando su tessuti post-rock e oscillazioni electro, deviandoci in un mondo inquinato e incantato dove appaiono volpi in città, giorni a orologerie, spaventi e ossessioni che sono tutti i segni di una luminosità butterata. Del resto con un titolo che reclama i giorni che si fanno scuri sembra di trovarsi all’ascolto dentro una serata infinita, poco prima che cali il sole e venga giù la notte. The Turning of Our Bones, il pezzo iniziale, è uno dei vertici di questa serata, sogno scarno e insistente – bella ripetizione di beat sempre sul punto di esplodere. Another Clockward Day comincia come un recitato alla Morrison nel suo disco di preghiere americane, prima di scarnificarsi negli intagli di un crooner sballato che canta la storia di una masturbazione notturna. Un pezzo come Sleeper è invece una dolce ossessione con pizzicate di corda luminose, che ci conduce diritti a sbattere verso la conclusiva Just Enough che suona come una dichiarazione di resa.
Gli Arab Strap ci consegnano un nuovo schianto da ascoltare pezzo per pezzo, un disco che nasconde la speranza sotto il tappeto e per certi versi si fa disperato. Un disco che mentre potrebbe evocare nostalgie da anni novanta, le toglie decisamente di mezzo; sono gli stessi Arab Strap a metterlo in chiaro: non cercate nostalgie in As Days Get Dark, qui c’è solo futuro, un futuro notturno ma un futuro registato in modo onesto. E ci mancava un po’ di bella onestà da mezza sera.