Mica P. Hinson non passa di certo inosservato, nemmeno quando si aggira zaino in spalla tra i ragazzi accorsi a vederlo sabato scorso all’Hart, nel salotto bene di Napoli, pochi minuti prima di salire sul palco. A pochi passi in linea d’aria dalla movida del lungomare, immersi nella quiete dello storico quartiere di Chiaia, vicini alle scale che Massimo Troisi rese celebri in Scusate il ritardo (e che portano oggi orgogliose il suo nome), è nato questo spazio che ha fatto della multidisciplinarietà la sua cifra stilistica. Sorto sulle rovine di uno dei cinema storici della città, che ancora mantiene il suo nome sul vecchio ingresso, l’Hart è presto diventato, a pieno titolo, uno dei luoghi dove ascoltare musica a Napoli, quest’anno grazie a un cartellone targato Neo che sabato 18 novembre ospiterà la cumbia elettronica di Popoulos, e poi ancora, tra gli altri, gli Ex Otago e il nuovo ambizioso lavoro di Colapesce.
Questa sera l’attesa è, però, tutta per il cantautore trentaseienne, nato a Memphis ma texano d’adozione, che in poco più di dieci anni è riuscito a ridisegnare i confini del folk cantautorale fin dallo straordinario esordio di Micah P. Hinson and the Gospel of Progress del 2004, grazie a un songwriting classico con spruzzate d’inquietudini contemporanee e a una manciata di canzoni affilate come coltellate dritte al cuore, difficili da dimenticare per l’intensità, la bellezza e la poesia dei testi accompagnati dalla chitarra e per gli arrangiamenti mai banali affidati spesso alle malinconiche tessiture degli archi.
Il ragazzo occhialuto, incrocio perfetto tra un nerd di provincia e uno stronzetto cool capace di incenerirti con una sola alzata di sopracciglia, è cresciuto umanamente e musicalmente negli anni. Alla disperazione d’amore, così tangibile nel disco d’esordio, per quella Melissa cui deve la sua discesa all’inferno e, insieme, la formazione imprescindibile della sua poetica; a quella dimensione, intima e spregiudicata allo stesso tempo, attraverso la quale aveva trovato il coraggio di guardare nel baratro delle sue ossessioni e del suo turbolento passato, è andato sostituendosi, nel tempo, uno spirito meno bohémienne e più autenticamente americano.
A partire soprattutto da Micah P. Hinson and the Pioneer Saboteurs del 2010 e dall’intervista a The Quietus, in cui rivelò, non senza un certo scalpore, “la paura della morte del sogno americano” identificando l’allora presidente Obama come “l’assassino” del grande sogno, con una presa netta di distanza dalla riforma sanitaria, dalla cultura socialista e comunista, lontana, a suo dire, dalla vera natura del grande stato del continente americano dove “puoi realizzare da solo grandi cose oppure fallire miseramente”, Hinson, pur rifiutando l’appartenenza al mondo repubblicano, preferendo identificarsi con un contraddittorio ideale americano delle origini (Hinson ha ascendenze native della tribù dei Chickasaw) e rivendicando la propria crescita spirituale e umana (il matrimonio con Ashley Bryn Gregory, la nascita del primo figlio), ha progressivamente smussato i tratti più intimi e personali della poetica degli esordi per diluirli dentro il racconto dell’epopea americana, mentre sul piano strettamente musicale ha reso più diretti e aggressivi sia la sua voce sia gli arrangiamenti.
Tale cambiamento ha trovato dopo qualche prova più zoppicante, felice approdo nell’ultimo Micah P. Hinson and The Holy Strangers, che si fa racconto (nel senso letterale, allegato a poche copie in edizione limitata) e non più diretta confessione, dunque, ma rappresentazione di un mondo alla deriva che tanto deve all’universo letterario del Furore di Steinbeck e che, va detto, a tanta ambizione risponde con un disco sicuramente affascinante, coerente, profondo che racconta di una sorta di Apocalisse Americana (dentro una storia di uomini, guerre e tragici epiloghi privati).
The Holy Strangers è il sermone apocalittico e poetico (non è forse l’Apocalisse di Giovanni opera di poesia?) di un uomo schivo, che oggi si è riconciliato con le radici del grande sud e della periferia in cui ha vissuto (Abilene) e che, oggi, ha scelto di abitare (Denison). La stessa periferia che rappresenta anche un modo di stare al mondo e all’attenzione degli altri, mettendo, per un attimo o per sempre, da parte la propria storia, per mimetizzarla dentro il grande solco della letteratura americana. The Holy Strangers, storia di disperazione, di guerra, d’amore e morte, di distruzione che travolge tutto e tutti, è un disco originale e bellissimo, più asciutto dei lavori precedenti ma dall’innegabile forza narrativa e musicale, tra dichiarati omaggi al Man In Black per eccellenza (la bellissima Lover’s Lane), struggenti intermezzi strumentali e finanche sermoni presi direttamente dall’Antico Testamento (dal Libro del Profeta Michea, cui deve il suo nome di battesimo).
È proprio la messa in scena del suo ultimo disco che attende stasera i tanti che sono accorsi nella grande sala ricavata dal vecchio cinematografo che, ancora, come da tradizione, proietta film d’essai. Ad accoglierlo un palco ampio sotto lo schermo bianco per le proiezioni con, ai lati, due file di poltroncine da cinema che lasciano vuoto l’intero spazio centrale tra stoffe e legni che sembrano farne il set ideale per quest’uomo venuto dal Texas un po’ poeta urbano, un po’ cantante country e spirito essenzialmente folk.
Lo dimostra lo smaccato omaggio a uno dei padri americani del genere: quel Woody Guthrie e il suo indimenticabile This machine kills fascists, scritto sulla chitarra, che contribuisce a spiazzare la percezione dell’uomo dietro il musicista ed evidenzia una personalità frammentata e complessa. Look solo apparentemente trasandato, da solo con la sua chitarra tra effetti e pedali poggiati su un tavolino, un’aranciata che non toccherà mai, braccialetti, un cavetto usb che sbuca fuori dalla tasca dei pantaloni, uno smartphone in tasca che prenderà più volte da usare come accordatore e sul quale leggerà un paio di volte qualcosa (la scaletta del concerto, forse?) un portachiavi appeso alla paletta della chitarra, la corona di un rosario a pendere dal polso tra la giacca e la camicia, Micah P. Hinson chiede immediatamente che sia spento il proiettore che illumina lo schermo alle sue spalle. È evidente fin dall’inizio la sua ricerca d’intimità.
A occhi chiusi, ripiegato sullo strumento, inizia a sussurrare parole pesanti come pietre nel suo microfono vintage. La gente si stringe sotto il palco, per scattare foto o per stargli il più vicino possibile. Come da aspettative, Micah concede poco allo spettacolo: quando a un tratto sembra chiedere scusa per non essersi ancora presentato e non parlare molto, sottolinea, in realtà, la centralità della musica contro tutte le stronzate che avrebbe potuto dire. Qualcosa si perde (ed è inevitabile) rispetto alla complessità del lavoro in studio ma innegabile è l’intensità che riesce a creare soprattutto in un dialogo intimo con se stesso e la sua musica.
Hinson sembra essere quasi altrove mentre canta e suona alla ricerca dell’atmosfera giusta, della strada interpretativa cui affidare tutto quello che ha da raccontare. Gran parte del pubblico silenziosamente cerca di instaurare dentro di sé un contatto vero e sentito con l’artista texano: a tratti funziona ed è meravigliosamente palpabile, altre volte sembra esserci quasi un distacco tra il musicista e il pubblico. E, per un attimo, si percepisce la sua paura, letta sui quotidiani del mattino, di “non trasmettere bene ai cuori e alle anime che sono in sala quello che desidero comunicare”.
Accade quando qualche voce più alta e qualche risata dalla sua destra si avvertono distinte, spezzando l’atmosfera costruita a fatica. Non sarebbe una tragedia a dire il vero, è un prezzo che troppo spesso si è abituati ormai a pagare nella fruizione contemporanea della musica dal vivo, tra qualche distrazione di troppo e una concezione meno sacra del rapporto col musicista, ma anche se le voci durano un attimo (e non sono così alte) Hinson interrompe le prime note del pezzo, s’innervosisce, sottolinea la mancanza di rispetto tra toni sarcastici e il reale e imbarazzante fastidio di essere stato disturbato durante la performance. È un peccato perché l’episodio spezza un po’ il ritmo e l’atmosfera attenta del sottopalco.
Hinson riprende a suonare, alternando ai brani dell’ultimo disco poche cose del passato per sopperire agli intermezzi che non sono certo riproducibili con la sola chitarra. C’è ancora qualche voce di troppo cui Hinson risponde forse con un nervosismo un po’ eccessivo aumentando l’intensità del picking sulle corde a richiamare quasi il lontano “play fucking loud” di dylaniana memoria, senza però la stessa carica d’ironia. Dopo un’oretta saluta frettolosamente caricandosi lo zaino in spalla, lasciando la chitarra sul palco. C’è un po’ di sgomento, una mezza attesa di bis che però si fa, in un attimo, speranza vana per l’immediato inizio del dj set.
Alla fine resta in bocca un sapore agrodolce, la sensazione che non tutto sia andato per il verso giusto. L’esibizione è durata come concordato con gli organizzatori dell’evento ma la percezione di essere capitati in una serata scazzata per Hinson rimane, e non è nemmeno uno scenario così inconsueto giacché la forza del personaggio, come dell’artista, sta anche in questo, in una certa imprevedibilità che emerge da un volto a suo modo bellissimo che mescola onestà e affettazione, indiani d’America e yankee del profondo sud, che tradisce le origini borghesi su cui però il tempo e le scelte hanno depositato quella patina di verità portata dal vento caldo del sud, dalla determinazione a diventare ciò che sognava e dalla fatica, umana soprattutto, di resistere alle avversità che la vita, senza parsimonia, gli ha piazzato davanti.
Restano, per fortuna, gli sprazzi di autentica bellezza e di poesia che ha voluto regalare e che sono stati accolti con assoluto entusiasmo e partecipazione.
Micah P. Hinson richiama alla mente quei fiori del deserto capaci di sopravvivere a un ambiente che li vorrebbe vedere appassire e che invece sfidano le avversità, con la bellezza della loro tenacia. Ma è una strada così solitaria che, talvolta, si ha l’impressione che a contatto con la prova del mondo la bellezza si faccia insondabile al di fuori di una propria sfera intima, correndo così il rischio di rendersi inaccessibile.
Sempre sulla sua chitarra, in basso, si scorge un’altra scritta “Forgive them even if they aren’t sorry” e forse sta tutto racchiuso lì: perdonali Micah se qualcuno non è stato così vicino al tuo spirito come ti aspettavi così come noi perdoneremo te per aver voluto lasciarci senza nemmeno l’ombra di un sorriso. Per le scuse, ci penseremo tutti la prossima volta che passerai da queste parti.