L’inquietudine narrativa di Antonella Lattanzi

Proposto da Domenico Starnone al premio Strega 2021, Questo giorno che incombe – edito da Harper Collins Italia – è l’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi. La storia è quella di Francesca che con il marito e le figlie si trasferisce a Roma per permettere a lui di seguire le proprie ambizioni lavorative. Per la famigliola, quindi, si apre un ventaglio di nuove possibilità. Il cuore di Francesca batte al ritmo di una nuova vita che si prospetta pacifica e bellissima: una nuova quotidianità, un nuovo lavoro, una nuova città. Ma l’oscurità, densa e ottenebrante, serpeggiando tra le mura dell’edificio in cui i quattro si sono appena trasferiti, cala su di lei come una lunga notte.

I condomini, lì, sono strani, inquietanti. Un gatto viene trovato morto ammazzato. Di notte, Francesca ha l’impressione di vedere qualcuno aggirarsi di sotto. Quando infine scompare una bimba dal cortile, quel cortile che prima era grembo materno e che ora è luogo d’insidie, tutto precipita. Francesca crede d’impazzire, la casa le parla, le dice delle cose, cose orribili, e pensieri cattivi, truci sulle proprie figlie si fanno largo nella sua testa. Il marito è sempre più assente. I vuoti di memoria di cui soffre si fanno più frequenti, preoccupanti. E il sogno di una nuova vita si trasforma nell’incubo della follia.

Un romanzo pieno d’inquietudine, che ricorda Stephen King e Shirley Jackson. Una storia dalle tinte scure e capace di dialogare con le nostre paure più profonde scavando, allo stesso tempo, in quella terra desolata dove abbiamo seppellito i nostri mostri. Lattanzi crea una tensione palpabile, il suo è un mondo fatto di piccole insidie che straniano e sconvolgono e che, tra le pagine di questo romanzo bellissimo, non lasciano scampo.

Cominciamo dal titolo. Qual è il giorno che incombe?

Quando ho trovato questa citazione shakespeariana ho pensato fosse perfetta: questo romanzo è pieno di giorni che incombono. Colpi di scena che modificano la strada di Francesca. Della frase mi piace anche la seconda parte “ma basta che il giorno trascorra e la sua fine è nota”. Quante volte ci è capitato di pensare “se mi fossi comportata in modo diverso, come sarebbero andate le cose?”. Il senso, per me, è anche questo.

Francesca a Milano ha un buon lavoro, una bella vita, ma decide di mollare tutto per il marito, perché lui possa seguire i suoi sogni. È un grosso sacrificio. Perché decide di farlo?

Se sia un sacrificio o meno, è a interpretazione del lettore; a me nei romanzi non piace dare risposte, ciò che voglio è porre delle domande. Come nella vita reale, il gesto di una persona ha un senso per alcuni e un senso e per altri, e tutte le interpretazioni sono giuste. Francesca è piena di curiosità e di voglia di cambiamento, quindi per lei non è una scelta difficile, quella di trasferirsi in un’altra città. Seguire il marito è anche un tentativo di cercare qualcosa di nuovo.

Costruisci un forte senso d’inquietudine fin dall’inizio, il lettore l’avverte ma Francesca parrebbe di no. Anzi, le avvisaglie che qualcosa non vada, i presagi cattivi, sembrerebbe non volerli vedere. Pensi sia un’operazione comune a tutti? Inconsciamente siamo sempre tendenti a respingerli, i cattivi presagi?

Secondo me ci sono persone che così come Francesca vanno incontro al dolore senza stare a pensarci tanto e altre che lo riconoscono, il dolore, che ne hanno paura e che quindi cercano di arginarlo. Penso che quelle come Francesca, che prima lo rifuggono e che poi l’affrontano soltanto quando il problema sbatte loro in faccia, hanno di buono che non si rovinano il resto della vita nell’attesa continua di una tragedia che verrà. Io sono così, ad esempio: penso sempre che andrà tutto male.

La maternità per Francesca non è istintiva, pare.

Anche secondo me non è poi tanto un istinto. Penso piuttosto che ci siano persone più portate per la genitorialità e altre meno, che ci riflettono di più e si accorgono di quanto sia spaventoso. Francesca ha rimosso la madre, non ricorda niente di lei finché non arriva in questa casa dove c’è una sorta di resa dei conti con il passato. Avendo rimosso sua madre ha pure rimosso l’istinto di maternità, tant’è che sente continuamente un coro di voci, che un po’ è la casa, un po’ è nella sua testa, che le dice che dovrebbe essere una madre migliore.

Quindi è un romanzo sulla maternità.

Anche, sì. Alle donne spesso, quando diventano madri, viene richiesto di smettere di essere un essere umano e di diventare una mera funzione, un ruolo, e questa richiesta è ingiusta per chiunque. Tristezze e paure, momenti di rabbia e di odio verso i figli appartengono a tutte le madri, pure se in gradazioni diverse, ovviamente, e sono componenti umane.

Dove finisce il ruolo di un genitore e dove inizia quello dell’individuo che da esso è indipendente?

I miei genitori, a me e mia sorella, ci hanno sempre detto che dacché siamo nate, loro si sono dedicati solo a noi, a noi e basta. Nella loro testa, questo concetto, ci avrebbe dovuto far sentire amate, ma in realtà ci ha pesato molto. Ho sempre sentito la responsabilità delle loro rinunce, del fatto che avessero messo da parte i loro sogni per noi; mio padre voleva fare il pilota e ha fatto il professore, mia madre la ricercatrice e ha fatto la professoressa.

Ci si sono calati fin in fondo, loro, in questo ruolo.

Sì, e secondo me questo fa male al genitore e al figlio, che addosso si sente una responsabilità enorme e che coltiva per sempre un senso di colpa atavico.

Si può gestire in altri modi, secondo te, il ruolo del genitore?

Diventare genitore, per me, significa pure diventare una nuova persona. Quando hai un figlio scopri anche molto di te. Una mia amica mi diceva sempre che nel momento in cui diventi genitore, sviluppi una paura mostruosa che dura per sempre. Ecco, lì ti riscopri. Ma in questa riscoperta di te stesso devi anche lottare, combattere per rimanere altro rispetto all’essere genitore.

Devo confessarti una cosa. Leggendo dei brutti pensieri che Francesca aveva sulle figlia, mi sono sentito sollevato. Anch’io ho avuto pensieri cattivi, non sui figli perché non ne ho, ma su persone a me care. C’è un tentativo di sgravare il lettore dal senso di colpa, nella letteratura che apre al male?

Sì, certo. Quel che volevo, tra le altre cose, era anche che una donna, una madre, leggendo il romanzo e riconoscendo come suoi quel genere di pensieri, si sentisse meno sola. Basta pensare a Shining, no? Leggendo di quell’uomo che cerca di essere un buon padre ma che non ce la fa, ti senti meno solo, ti senti meno cattivo: il suo fallimento è anche il tuo fallimento. Voglio dire, in fondo, siamo tutti esseri umani, abbiamo tanto in comune nelle esperienze che attraversiamo nel corso della vita.

L’amore è fallibile, egoista… l’amore è solo un’ipotesi plausibile”. Quando un amore è egoista?

Nell’innamoramento, quindi all’inizio, un po’ lo è, per me. Nella vita di tutti i giorni, invece, l’amore cresce, fa giù e su, si modifica. L’immagine che mi viene in mente, a tal proposito, è quella del libro in cui ci sono marito e moglie nel letto, vicini e pronti a dormire, ecco in quel momento lei pensa: “se tu sapessi chi sono davvero io, mi ameresti ancora?”. Perché è anche vero che alle persone a cui vuoi più bene nascondi delle parti brutte di te perché hai paura di perderle, e forse qui l’egoismo c’è.

Racconti una quotidianità di finzione in una tragedia realmente avvenuta. Perché questo intreccio?

È qualcosa che ho fatto in tutti i miei romanzi. In Devozione mi sono finta una tossicodipendente, ho studiato l’eroina sul campo per anni, ma il romanzo è comunque di finzione. Una storia nera parte da casi di cronaca, storie di donne che hanno usato violenza sui mariti e viceversa, ma poi è una storia inventata. Il fatto è che mi piace la possibilità di rendere la complessità, le sfaccettature, di una storia, cosa che se ci si attiene in modo ferreo a ciò che è realmente accaduto non si può fare.

Le fondamenta della storia, però, sono reali, quindi. Perché hai scelto proprio questa storia?

Questa bimba, scomparsa a soli cinque anni, viveva nel palazzo dove vivevo da anch’io da ragazzina. L’ho scelta per questo, la sua storia: la sua scomparsa ha avuto degli echi nella mia infanzia. I genitori miei e degli altri ragazzini del condominio avevano paura: una volta visto il male in faccia, temevano potesse ripresentarsi.

Però hai inventato la protagonista.

Mi interessava rimanere nel contemporaneo, e se mi fossi attenuta alla realtà avrei dovuto ambientare la storia nella Bari degli anni Ottanta. Per questo ho inventato Francesca, che nella realtà non è mai esistita. Come dice Stephen King: il romanzesco è la verità nella finzione.

A proposito di verità. D’un tratto, ci sono tante verità e il reale pare impossibile da acchiappare.

Guardando molti processi, io che ne sono un’amante, ho imparato che la realtà non esiste ma esistono tante verità. La realtà è l’evento, ma la verità è di ognuno.

Quindi non esistono buoni e cattivi?

Mostriamo il nostro lato migliore ad alcuni, il peggiore ad altri. Se questo romanzo l’avessi raccontato dal punto di vista degli inquilini o del marito di lei o della bambina, la figura negativa avrebbe potuto essere un’altra rispetto a quella di Francesca, forse Francesca stessa.

Il buio si chiude su Francesca, leggendo pare proprio che le luci su di lei si abbassino. Che buio è, da dove arriva e perché si chiude su di lei proprio quando si trasferisce nel nuovo condominio?

Penso che il buio ce l’avesse dentro da sempre. Ci sono eventi nella vita di ognuno che scatenano le nostre parti più oscure e altri che invece illuminano le più chiare. Francesca quando arriva nella nuova casa viene lasciata sola dal marito, viene privata dalla possibilità di lavorare e i nuovi condomini le fanno paura, sono invadenti e strani; comincia addirittura a pensare che facciano parte di una setta. Ed ecco, è nel momento in cui è rinchiusa in questa casa che la parte oscura deflagra. Insomma, se il buio si chiude su di lei è perché le condizioni glielo permettono. La domanda che faccio al lettore è se questo posto abbia qualcosa che non va o se succede tutto nella testa di Francesca. Un po’ come succede tra l’Overlook Hotel e Jack Torrence.

Se dovessi tentare tu una risposta, come diresti che esplode una vita?

Ci sono tanti modi, credo. Ci sono delle volte in cui una vita esplode all’improvviso, succede qualcosa di terribile o di bellissimo e tutto cambia da un momento all’altro. E ci sono delle volte in cui la vita esplode giorno dopo giorno, lentamente. Se il giorno che incombe arriva d’improvviso, la vita esplode con uno scoppio. Se i giorni che incombono macerano, esplode dopo un processo lungo, a volte anche una vita intera. E questo sia nel bene sia nel male.

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