Annie Ernaux, uno strano tipo di spietata

Chissà che la memoria non consista solo nel guardare le cose fino in fondo.
YUKO TSUSHIMA

Esistono al mondo due modi di essere spietati. Il primo è per i pigri: stufi con poco, fondali bassi al centro del petto, questo tipo comune di sofferenti intitola alla propria personale dose di dolore vaste giurisdizioni. Chiusi ben presto all’ascolto, gli arride la maestosità di un granitico ottimismo: garantiscono la salvezza della morale e legiferano sulla sofferenza, circoscritta nei confini del loro sentire. Difettano in immaginazione, qualcuno direbbe empatia. Questo ne fa individui pericolosi. Al secondo tipo tocca in sorte l’occupazione coatta degli oceani. “Contengono moltitudini”. Affiliazione di spacciatori vari di compassione, questo strano tipo di spietati erodono scavano qualche volta travolgono i muri eretti dai primi. Per farlo setacciano e traducono -quindi tradiscono- il proprio dolore.

Forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura.

Annie Ernaux non è tornata con L’evento, pubblicato da L’orma editore e ancora una volta splendidamente tradotto da Lorenzo Flabbi. Non è tornata perché non è mai andata via. Il suo metodo di epistemologia romanzesca, l’affiorare ciclico del pianeta sommerso delle memorie; l’ambiente liquido, talvolta limaccioso della scrittura restituiscono la densità di quell’esperienza variamente percorribile, per brevità chiamata tempo. E il tempo non torna – mai: sfuggire irrimediabilmente è solo la prima parte della sua maledizione, la parte per pigri. Tornare, interminabilmente tornare nel ricordo, costante e scrupoloso – come le maree – è la seconda parte della faccenda. Quella per spietati del tipo Ernaux.

Voglio tornare a immergermi in quel periodo della mia vita, sapere ciò che è stato trovato lì dentro. Questa esplorazione si inscriverà nella trama di un racconto, l’unica forma in grado di rendere un evento che è stato solo tempo all’interno e al di fuori di me.

Nell’ottobre 1963 Annie Ernaux, studentessa di lettere a Rouen, sommersa dal dolore e dall’incredulità aspetta in vano che le venga il ciclo. Una “realtà” si annida, solida e ostinata nella sua pancia, frutto dell’incontro estivo con uno studente di scienze politiche. Qualcosa di innominabile, che non ha posto nel linguaggio perché non provvisto di futuro, deve essere sradicato dal suo corpo.

Una settimana dopo, Kennedy è stato assassinato a Dallas. Non era già più qualcosa che mi poteva interessare.

La vita dello studentato, le visite ai genitori, le nausee: il tempo di una condizione senza nome – mesi “bagnati da una luce di limbo” – cresce in angoscia e si estende indeterminato, sospendendo miseramente ogni progettualità. Lo studio, la tesi da scrivere, letteratura cinema teatro: la costruzione di un mondo che è traguardo sociale, fuga dal mondo operaio e di piccoli commercianti dal quale la ragazza proviene appare in bilico, minacciata e rincorsa dalle circostanze.

Né il diploma né tutti gli esami dati a lettere erano riusciti a ostacolare la fatale trasmissione di una miseria di cui la ragazza incinta era, alla stregua dell’alcolizzato, l’emblema. Mi ero fatta fregare all’ultimo dagli ardori, e ciò che cresceva in me era, in un certo senso, il fallimento sociale.

 

La legalizzazione dell’aborto in Francia fu sancita dalla legge Veil, nel 1975 (in Italia la 194 giunse tre anni dopo, nel 1978). Il temporaneo declassamento sociale che trasforma l’irreprensibile studentessa in preda espugnabile, da parte degli uomini che vengono a conoscenza del suo stato – o in oggetto di pettegolezzo per le donne – è soltanto una miseria collaterale rispetto al fatto di dover abortire violando la legge, e alle difficoltà che ciò comporta.

Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che “le cose sono cambiate”. Ciò che è accaduto resta coperto dallo stesso silenzio di prima. È proprio perché nessun divieto pesa più sull’aborto che, mettendo da parte la percezione collettiva e le formule necessariamente semplificate imposte dalle battaglie degli anni Settanta –“violenza sulle donne” eccetera-, io posso affrontare, in tutta la sua realtà, questo evento indimenticabile.

La ricerca di una mammana spinge Annie Ernaux, smarrita, a cercare aiuto e sostegno negli altri – studenti e studentesse, studenti mancati, un medico – in un accumularsi di problemi e giudizi, punti di vista che le restituiscono, assieme a un’interessante varietà di distorsioni della sua immagine, la certezza di doversela cavare da sola. Come ineluttabilmente solitaria è la condizione che lega ognuno al proprio corpo e alla propria coscienza. E al rischio necessariamente eluso che corpo e coscienza si infrangano sotto i colpo della contingenza.

Migliaia di ragazze sono salite lungo una scala, hanno bussato a una porta dietro la quale c’era una donna di cui non sapevano nulla, a cui stavano per consegnare il proprio sesso e il proprio ventre. E questa donna, l’unica persona in grado in quel momento di mettere fine alla sciagura, apriva la porta in grembiule e pantofole a pois, uno strofinaccio in mano: “Desidera?”.

C’è qualcosa di sconvolgente, un femminile coraggioso e pionieristico nel consapevole rischio di mettere a repentaglio la propria vita per affermare il proprio progetto, che non collima con quello della biologia, di dio, di una società incapace di distinguere tra ciò che è male perché vietato e ciò che è vietato perché male. Una società spietatamente divisa in dominanti e dominati, che raramente si confondono tra loro, irriducibilmente pronti a colpevolizzare. In “L’evento” molto spesso i dominanti sono i medici, per posizione sociale ma ancor più per il potere, di vita e di morte, che esercitano.

“Cosa ti è saltato in mente? Dimmi subito che cosa hai fatto? Rispondi!”. Mi fissava con un luccichio negli occhi. Io lo supplicavo di non lasciarmi morire. “Guardami! Giurami che non lo farai più! Giura!”. Quello sguardo da pazzo mi ha fatto temere che se non avessi giurato sarebbe stato capace di lasciarmi morire.


Annie Ernaux intreccia ancora una volta il vissuto personale alla Storia e alla società, facendo della scrittura il mezzo sorprendente, instancabilmente osservato di traduzione e attivazione di memorie come correnti marine. Il corpo femminile è colpa con cui fare i conti per sbarazzarsene, percorso conoscitivo. Affermare: la propria identità. Rimettersi al mondo oltre ogni costrizione, malgrado tutto, perché chiamate a questo.

È come se questa donna si dà da fare tra le mie gambe, che introduce lo speculum, mi stesse facendo nascere. Ho ucciso mia madre in quel momento.

L’esperienza “tra la vita e la morte” le fa dono di un corpo nuovo, paradossalmente e per negazione, il corpo si scopre come “luogo di passaggio di generazioni”, donandole la certezza di una maternità possibile e voluta, se scelta.

Astenendosi da morale e retorica, densa esatta e chirurgica Annie Ernaux ci regala un romanzo spietato, doloroso. Leggendolo ho pensato a una frase, sentita a una presentazione, detta da Domenico Starnone. Diceva pressappoco: “La letteratura può dirsi tale se trasporta materia pesante”. Mi è tornato in mente il lancio di embrioni di plastica a una manifestazione pro life dell’anno scorso. Ho immaginato il peso di quegli oggetti, la consistenza di striscioni e manifesti che tornano a mettere in discussione la libertà di scelta rispetto all’aborto, il fitto sottobosco degli obiettori di coscienza, il rigurgito dell’opera persuasiva di cattolici e altri psicopatici. Ho pensato all’aggettivo “retrivo”, alla sua consistenza, alla punte della t, al vibrato delle r: l’ho valutato come arma di difesa. E mi sono accorta che non è sufficiente. Agli spietati si può parlare solo con la spietatezza di un’esperienza completa, che ne insidi e ne assedi le barriere. Un’esperienza Ernaux.

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