Parafrasando Jean-Luc Godard si potrebbe dire che per fare un film bastavano Anna Karina e una pistola. Naturalmente in quei film c’è molto di più, ma è difficile negare come Anna Karina sia riuscita splendidamente a condensare un intero immaginario della nouvelle vague e del cinema in generale. E così la sua scomparsa diventa pure la scomparsa di un’icona, come quelle immagini sacre bizantine che vanno oltre la pura immagine per diventare rappresentazioni ideali fuori dal tempo. Andy Warhol è riuscito a condensare un certo immaginario pop-americano nel volto di Marilyn Monroe e Liz Taylor, dimostrando la forza evocativa di un’icona nel provocare e ispirare operazioni quasi magiche nella mente umana – e come per magia ci saranno scatti e film di Anna Karina capaci di trascinarci verso un’epoca.
Eppure quando alla fine degli anni Cinquanta Anna Karina arriva a Parigi dalla Danimarca non sa ancora cosa la aspetta – e come potrebbe, è solo una ragazza di 17 anni in cerca di un sussulto. È a Parigi che incontra il regista e futuro marito Godard. La prima volta rifiuta un ruolo minore in Fino all’ultimo respiro, non voleva recitare una scena di nudo. Poi Jean-Luc tira fuori addirittura un film dal cappello per conquistarla, Le petit soldat. Stavolta Anna Karina accetta, ed è solo l’inizio di un sodalizio che li legherà per anni fino al divorzio. L’inizio di una stagione creativa.
Une femme est une femme, Vivre sa vie, Bande à part, Alphaville, Pierrot le fou: tutte pellicole che agiscono per incastonarsi nella memoria, film dove si avverte il continuo scambio creativo e rivelatorio tra Anna e Jean-Luc. Come ricorda il cineasta francese Thierry Jousse, “Anna Karina era molto più di un’attrice. Era il simbolo o piuttosto l’immagine di un cinema libero, lirico, moderno, abbagliante, allegro e tragico allo stesso tempo. Un mondo co-prodotto da Jean-Luc Godard e Anna Karina”. Un mondo di cinema puro, dove il linguaggio è puramente cinematografico e si stacca dalla narrativa: Godard e Anna Karina agitano miti attraverso le immagini, ciò che conta è la visione. La corsa nel Louvre di Bande à part, i discorsi filosofici al bar di Vivre sa vie, sono tutti omaggi alla purezza dell’immagine che dal bianco e nero esplodono poderosamente nei colori della camminata in riva al mare di Pierrot le fou, fino a rievocare una bandiera di Francia a pastello incarnata in tutto il simbolismo di un nome che dentro possiede un destino e una nazione, Marianne Renoir. Se Une femme est une femme è un inno alla gioia e alla femminilità incarnata da Anna Karina, in Pierrot avvertiamo già il distacco che sta per consumarsi seguendo la traiettoria altalenante della storia d’amore e odio tra il bandito Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) e la donna che prende a poco a poco le distanze.
Negli stessi anni Anna Karina recita anche nelle pellicole di Roger Vadim e Jacques Rivette, fa compagnia a Mastroianni nell’adattamento di Luchino Visconti de Lo straniero di Camus, e diventa protagonista di un musical con Jean-Claude Brialy e Serge Gainsbourg dall’inequivocabile titolo: Anna. Per lei Gainsbourg scrive la canzone Sous le soleil exactement, con lei duetterà in Rien rien j’disais ça comme ça, o nella più indimenticabile registrazione danzante di Ne dis rien. Anna esce nel 1967, stesso anno del folgorante incontro tra Gainbourg e Brigitte Bardot, che qualche anno prima aveva recitato nel film Il disprezzo di Godard. Ci sono coincidenze, incontri e circolari ispirazioni, che quasi giocano con i nostri immaginari di un’epoca da nouvelle vague, ye-ye e allerte da sessantotto. E anche per tutta questa mescolanza di fatalità Anna Karina incarna un ideale, che non è solamente quello di una bellezza rimbaudiana (ingiuriosa ispiratrice di poesia che viene a sedersi sopra le ginocchia), quanto di un’agitazione viva che sorpassa i decenni per conficcarsi nel linguaggio, nella cultura, nella natura. Un linguaggio che è anche quello delle immagini, più astratto delle parole con cui significhiamo gli oggetti e le idee, allo stesso modo evocativo nell’intrappolare un intero mondo dentro una visione. Per questo non possiamo che omaggiare Anna Karina mentre danza spensierata canticchiando Ma ligne de chance, mentre lascia cadere una lacrima guardando Jeanne d’Arc, o quando riappare demònica nella fantascienza de L’invenzione di Morel o in quella di Shéhérazade. E per questo a lei sono stati offerti persino i canti sacrificali della mia generazione, e di quelle a venire – come se ogni orfano di divinità avesse bisogno di qualcosa in cui credere.
C’è un’intervista della tv francese che registra il momento dell’incontro tra Anna Karina e Jean-Luc Godard a 20 anni dalla separazione. Sono entrambi emozionati, anche se Godard fa finta di nulla e tira fuori quel desiderio che aveva da giovane di fare come i suoi miti del cinema, come Rossellini, di avere accanto un’attrice con cui condividere vita e lavoro – anche per quello (fa capire) il matrimonio non ha funzionato. Anna Karina si commuove e si allontana. Forse porta ancora in bocca il ricordo di un altro momento, quando agli inizi della loro storia qualche giornalista aveva insinuato che andasse a letto con Godard solo perché aveva risposto a un annuncio del regista in cerca di un’anima gemella con cui fare cinema francese. Eppure lei aveva una memoria un po’ diversa delle cose, c’era stato il corteggiamento sul set di Le petit soldat, c’era stato un tempo in cui era riuscita a dare più sicurezza a un timido regista francese assalito da vaghi istinti rivoluzionari. Poi era venuto il Sessantotto e Godard era andato via per le strade abbozzate ne La cinese sottobraccio ad Anne Wiazemsky. Sapevano già che non avrebbero più avuto immagini da dirsi.