«Da chi ha ereditato questa gente la mancanza di misura, che gli Dei dell’Ellade, sì familiari un tempo in queste contrade, punivano crudelmente come figlia dell’empietà?
Ogni qualvolta mi imbatto in una assenza così assoluta di dominio su sé stessi, in un travolgimento così completo dell’essere sconvolto dalla passione, io, che pure da anni cerco di compenetrarmi, di capire gli interessi, le aspirazioni, i dolori di questo popolo, mi sento d’un tratto straniero e sento acuirsi la discordanza profonda tra le nostre umanità»
(Umberto Zanotti Bianco, Tra la perduta gente, Soveria Mannelli: Rubbettino, p. 62)
Raccontare la ‘Ndrangheta significa ritrovarsi subito catapultati in un girone di nomi e soprannomi, di boss ed arresti, di interminabili liste di faide, ma soprattutto di morti; significa svelare i rapporti tra fratelli, cementati dal sangue e da una rigida obbedienza all’ordine familiare.
Significa anche entrare nella storia di un popolo di pastori e contadini, che – isolato ma protetto dall’Aspromonte – è divenuto in fretta avido di un certo riscatto sociale fin dai tempi dell’Unità d’Italia. Lo stesso che lo ha portato a cercare ed aprire tutte le porte del guadagno, che sia il narcotraffico, un facile appalto di costruzioni o del “sano” riciclaggio.
Anime Nere di Francesco Munzi, film pluripremiato del 2014, porta con sé l’insieme di tutti questi elementi del racconto: a cominciare da quella forma di rispetto reverenziale che domina tutti i rapporti di famiglia, su cui si fonda l’intera organizzazione criminale calabrese (‘ndrine, locali, province). È il rispetto che rende la ‘Ndrangheta una delle più potenti associazioni mafiose nel mondo.
Per chi già non conoscesse la storia – liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco – si parla di tre fratelli originari di Africo: Luigi, narcotrafficante internazionale che da Amsterdam tratta con i cartelli boliviani. Rocco, imprenditore edilizio, trapiantato nella borghesia milanese coi soldi sporchi del primo. Luciano, il fratello maggiore, che cerca di tenersi bucolicamente (alleva capre e coltiva la sua terra) alla larga dagli affari loschi degli altri due.
Il vero protagonista del film è proprio Africo. Un comune diviso tra la parte vecchia, alle pendici dell’Aspromonte, e la parte nuova, nata sulla costa ionica a seguito dell’alluvione del 1951.
<<La Ionica calabrese è come la Palestina, uno stato occupato. Occupato dall’Italia>> ha dichiarato Francesco Munzi, che con riprese dall’alto rende bene la “lotta” geografica di questo paese. Una manciata di case ed edifici immersi nel verde dell’Aspromonte, troppo lontani per essere raggiunti dalla regola dello Stato. Come risponde Leo, il figlio irrequieto di Luciano (Fabrizio Ferracane), durante una discussione con lo zio Rocco (Peppino Mazzotta): “Garibaldi da noi ha fatto una brutta fine”.
Già nel 1987, Pantaleone Sergi – corrispondente per La Repubblica – spiegava che dominare la piazza di Africo significava avere diversi accessi sull’Aspromonte e quindi avere il controllo del traffico di cocaina su tutta la zona.
All’assenza dello Stato – per mesi nel 1987 non ci fu il comando dei Carabinieri ad Africo – subentrano dunque le regole della ‘Ndrangheta. Sta qui il senso dei luoghi abbandonati, che in parte già echeggiava nell’opera del professore Vito Teti.
Il ruolo di Luigi (Marco Leonardi) dunque, risulta fin troppo realistico: emblematica è la scena in cui un suo compaesano (‘mpare Mico) gli si avvicina per chiedergli aiuto contro chi gli parcheggia il furgone sotto casa, facendo entrare tutto il fumo dalla finestra. Luigi, il narcotrafficante ambizioso, assomiglia troppo a Giuseppe Morabito: classe ’34, detto ‘U Tiradrittu (spara dritto), boss ‘ndranghetista della locale di Africo dopo la sanguinosa “faida di Motticcella” negli anni ’80, in cui morirono quasi 50 persone. Morabito aveva inoltre costruito un’asse con i Pelle di San Luca – gli stessi della Strage di Duisburg – i Barbaro di Platì e i Pisano-Pesce-Bellocco di Rosarno per la gestione del narcotraffico. Quando fu arrestato, dopo anni di latitanza, nel 2004 dichiarò, come da copione: “Se non mi prendevate voi, non mi prendeva nessuno”.
La bravura di Munzi nel raccontare la ‘Ndrangheta sta nel mostrare i suoi riti, i simboli e le tradizioni che costituiscono una sorta di Codice delle Leggi da rispettare:
Ma anche le sue debolezze: il giovane Leo (Giuseppe Fumo) spara alla saracinesca di un bar protetto da un clan rivale, come ritorsione ad un’offesa. Si accende una faida vera e propria, culminante nell’uccisione di Luigi. In quel momento avviene la crisi. Luciano, che aveva sempre cercato di mantenersi lontano dall’anima nera della famiglia, ne risulta coinvolto per natura: il figlio Leo, infatti, vuole sistemare i conti da solo, andando anche lui contro le direttive “diplomatiche” dello zio Rocco.
Scorrerà altro sangue, confermando ancora una volta l’assunto per cui la ‘Ndrangheta muore quando il rispetto dell’ordine familiare viene meno. È capitato poche volte nella storia dell’organizzazione calabrese, e questo dice molto sul suo stato attuale.