Lo snello Duca Bianco lo ha «folgorato» da bambino, al punto da non aver mai provato a incontrarlo quasi per non umanizzarlo – neanche quando nel 2002 con i Bluvertigo ha calpestato lo stesso palco del Summer festival di Lucca qualche attimo prima e lo ha visto passare fuori dal camerino – finché quel vuoto incolmabile dovuto alla scomparsa non ha lasciato scelta: «Voglio reinterpretare David Bowie».
L’idea, come svela però Andy Fumagalli, tastierista, sassofonista e artista a tutto tondo, era nata leggermente prima ma si è rafforzata quando è arrivata la notizia della morte. «È stata la scusa per me di mettermi in gioco, ovviamente in punta dei piedi». E così, con i White Dukes, dopo essere salito sul prestigioso palco del teatro Goldoni di Venezia si prepara per una gita romana per il sipario del teatro Parioli che si alzerà il 16 febbraio.
Non sarà imitarlo o copiarlo ma rivisitarlo, non sembra semplice come approccio artistico tantomeno per quello umano. Come ti sei preparato?
Trasformando il percorso in un grande momento di ricerca, ed è diventata un’opportunità inaspettata per dare vita a tanti progetti inediti nati in cassetti che sono sul punto di aprire. Anche per misurarmi di nuovo nel ruolo di frontman, nonostante fosse già in piedi il progetto Fluon. Insomma credo sia stata l’occasione di ritrovare qualcosa e soprattutto di imparare diverse cose che non avevo mai affrontato.
E musicalmente come hai gestito i brani?
Con una band di musicisti bravissimi, come lo sono i White dukes. Siamo in sei, io con la mia piccola postazione e Nicole Pellicani che mi accompagna in un percorso emozionale e, ammetto, mi supporta quando per la mia voce bassa non ci arrivo. Anche se per ovviare, reinterpreto brani che Bowie già aveva abbassato di tonalità.
Musica, poliedricità e anche la pittura. Tanti aspetti che sembrano legarti con Bowie, è così?
Solo il fatto di essere snelli, quel torace esile che mi ha permesso di non fare il servizio militare, per il resto non oso paragonarmi a un solo granello del suo talento. Quel suo filo di inquietudine mi ha sempre affascinato, nonostante quei lati abbastanza devianti come nel video Loving in the alien. Più di tutti mi ha spinto a osare e a cercare di sognare a occhi aperti, buttandomi verso i sogni creativi.
Sei riuscito a incontrarlo?
No mai, neanche quando abbiamo aperto il concerto a Lucca. Ma sono riuscito a vederlo live al teatro Smeraldo (storico di Milano che ha chiuso, ndr) con i Tin Machine e l’ho seguito negli altri progetti. Lo stimolo di conoscerne il meccanismo, invece, è nato dopo. È un viaggio infinito attraverso una carriera che porta sempre a nuove scoperte, anche grazie al web che consente di trovare documenti inediti. Un percorso work in progress, come lo spettacolo che porterò in scena.
Spettacolo che a Venezia ha conquistato sold-out e applausi convinti. Quali saranno le sorprese romane e, perché no, anche il numero dei cambi d’abito?
Diciamo che non mi vedo con la tutina con le ali di Ziggy, ci saranno diversi cambi ma sono goffo e non ho la velocità di Brachetti quindi riprenderò alcuni miei capi o vestiti di miei amici stilisti, come Angelo Cruciani. Nessuna emulazione. Lascerò allo spettacolo la sorpresa perché cambia con il tempo, partendo da festival e da piccoli locali e costellato di feedback positivi, tranne uno sull’orario ma non dipendeva da noi. Anche per Roma sarà così, spero che ci sia la stessa partecipazione eterogenea, quel pubblico di ogni età che ho incontrato finora. E accorgermi di comunicare bene è un po’ strano perché è tutta un’altra epoca.
Soprattutto per te che in Italia hai rappresentato uno dei volti più rappresentativi dell’alternative rock con i Bluvertigo, magari oggi “solo” indie. Com’è guardarsi indietro?
Credo che la nostra band sia stata una congiunzione storica in un momento in cui tante multinazionali puntavano sulla succursale indie. Si investiva sulla nicchia, dando l’opportunità di crescere: ricordo la lungimiranza di Fabrizio Intra che diceva “Vedremo al terzo album” e così abbiamo potuto realizzare Trilogia chimica.
Quindi manca la lungimiranza nell’industria discografica?
Sarebbe un discorso lungo, diciamo che ci sono prima le analisi e i business plan e si viaggia a singoli ed è complicato. Io ascolto musica diversa, mi intriga il fermento di band-fenomeno che nascono su Youtube o progetti che con l’industria discografica non hanno molto a che fare ma in giro ci sono artisti interessanti, come Michelin, efficace per la sua epoca, o Ghali, lo stesso Calcutta ha buone idee. Noi siamo un po’ stati sempre a cavallo, anche grazie all’aiuto di Mtv: promuovevamo il video in televisione e il resto della settimana, con il furgone, ci facevamo 5 date girando paesino per paesino. C’era una certa sinergia.
Sinergia che il 9 gennaio sul palco di Venezia era palpabile quando Morgan ti ha accompagnato in diversi brani. Soprattutto quando gli hai riattaccato il basso durante Heroes. Nasconde ritorni di fiamma artistici?
È così, dopo tanti anni la tracolla si stacca ancora. È stato molto spontaneo senza prove. Conosco le sue capacità, ci basta uno sguardo e ho apprezzato la sua presentazione iniziale alo spettacolo. Ma non voglio creare false illusioni o aspettative. In tanti si ricordano i Bluvertigo ed è un orgoglio, ma dire che stiamo lavorando a un progetto nuovo è un passo troppo lungo.
E impegnativo, visto che già ti dividi tra pittura e musica. C’è qualcosa che ti contraddistingue di più?
Sono due filoni paralleli e io sono confusionario. Non riesco a sentirmi più in uno o in un altro, mi piace però pensare che c’è una certa riconoscibilità, sia in un quadro che, un domani, in un inedito. Poi ammetto che sono sempre in ritardo quindi più che l’ispirazione, seguo l’agenda.