Andrea Poggio, dai Green Like July a Controluce: “È solo l’inizio”

Foto di Miro Zagnoli

Quando la storia decennale con la band, dopo tre dischi, era giunta agli sgoccioli e ha deciso di iniziare a scrivere da solista, per Andrea Poggio, ex frontman e autore dei Green Like July non è stato semplice. Dal gruppo al singolo, dal folk rock inglese al pop raffinato italiano, l’artista e avvocato piemontese classe ’82, è stato il protagonista di una vera rivoluzione artistica. «Ammetto che i primi tentativi sono stati disastrosi. L’inglese per me era una maschera», ricorda ridendo. Fino alla pubblicazione del disco d’esordio Controluce, un flow di 9 brani di atmosfere pop elettroniche e sperimentazione, che lo ha portato su importanti palchi italiani. Non ultimo quello del festival Apolide, il 20 luglio, nell’Area Naturalistica Pianezze di Vialfrè, in provincia di Torino. «Condividerò il palco tra gli altri con M¥SS KETA e Populous. Artisti che stimo molto, per questo ammetto che non vedo l’ora. Ma parliamoci chiaro, sarò sempre io, non aspettatevi grandi sorprese».

 

Invece ce ne sono state di sorprese nel tuo percorso artistico. Sembra che tu sia stato quasi precursore di un’onda musicale di riappropriazione dell’origine italiana. Che ti sia trovato al posto giusto al momento giusto. È così?

Sì e no. Credo che sul finire del 2011 la scena indipendente abbia vissuto profondi cambiamenti. Artisti che venivano da band nelle quali cantavano in inglese si sono scoperti cantautori a tutti gli effetti. Penso a Giorgio Poi, a Motta, per fare alcuni nomi. Non so dire se tutto ciò sia stato frutto di pura casualità o se abbia avuto motivazioni più profonde. Quello che è certo è che mi sento parte di questa nuova onda soltanto in modo parziale. Mi sento invece distante anni luce dal fenomeno del cosiddetto itpop. Con questi artisti che si autoproclamano indipendenti senza aver mai ascoltato i Fugazi sento di avere davvero pochi punti di contatto, vedo profondissime differenze tra i nostri rispettivi percorsi. Nessuna critica, sia chiaro, è solo una constatazione. 

Restando sulla scena italiana. In diverse interviste riferendoti ai protagonisti hai parlato di pigrizia artistica ma anche di adeguamento. Non temi che un giorno le esigenze economiche possano, per te o anche per te, offuscare quelle artistiche?

Quando questo accade vuol dire che si sta percorrendo la strada sbagliata. Sono nato negli anni ’80, ma musicalmente mi sono formato nella seconda metà del decennio successivo, periodo in cui ascoltare un certo tipo di musica voleva dire far parte di una specie di setta religiosa, con un codice rigoroso e ben delineato. Un’epoca di estremismi, sia nelle scelte di vita, che in quelle musicali. Questo approccio ancora mi contraddistingue. Con questo non nego in assoluto la possibilità di fare scelte volte a semplificare il proprio lavoro o il proprio messaggio ma per me è un’eresia scrivere un disco avendo come principale scopo quello di vendere o di arrivare al grande pubblico.

Non scrivere per chi ascolta ma comunque cercare di raggiungerlo. Come è stato per te conoscere e rapportarsi con due pubblici diversi, quello dei GLJ e il tuo?

In Italia la musica indipendente sta vivendo un periodo molto particolare. Tanta gente si sta avvicinando a generi finora di nicchia e probabilmente lo sta facendo per i motivi sbagliati. Lo vedo soprattutto ai festival, ci sono molti più giovani rispetto a un tempo, ma non sono così sicuro che questa maggiore affluenza corrisponda ad un maggiore approfondimento o ad una maggiore attenzione. Ci sono forse più ascoltatori occasionali rispetto a un tempo, ma il numero di ascoltatori colti ed istruiti rimane sempre lo stesso. Ecco, magari negli anni ’90 non c’erano festival che mettevano in cartellone Max Pezzali tra i Sonic Youth ed Elliott Smith. Di certo non c’erano programmi radio volti a creare confusione e appiattimento tra i generi, come fanno invece certe playlist ai giorni nostri.

Parlando di Controluce è arrivato al pubblico?

È arrivato a chi doveva arrivare ma sono ben consapevole che questo è solo l’inizio di un lungo percorso. Oggi si tendono a schernire gli artisti se al primo disco non riempiono il Forum d’Assago o il Palalottomatica. Il mio vero obiettivo è mettere le basi per un qualcosa che possa resistere al passare degli anni. Controluce è soltanto l’inizio, ora incomincia il vero lavoro.

Cosa intendi per vero lavoro?

Aspirare a essere un artista che dopo 10 dischi ha ancora qualcosa da dire. Tenersi aggiornati, ispirati, curiosi. Leggere tanto, ascoltare senza perdere mai interesse nelle cose nuove, fare ricerca. Insomma, trovare sempre nuovi stimoli per andare avanti. Il lavoro del musicista è un lavoro da pazzi e, per molti versi, è uno dei mestieri più difficili al mondo. Si deve rimanere fedeli alla propria idea senza troppo pensare alle necessità economiche, peraltro sempre molto incombenti e assolutamente tangibili. Dicevamo prima a proposito dello scrivere un disco per esigenze diverse da quelle artistiche…


…e per fare live, altrimenti non si guadagna?

Ecco, questa è l’altra grande tomba del nostro mestiere. Non si dovrebbe scrivere un disco con il solo fine di andare a suonarlo in giro per pagare l’affitto. Le motivazioni, inutile dirlo, dovrebbero essere più profonde. Ma oggi sembra tutto frenetico, improntato alla convinzione che “più si fa e meglio è”. Si è finito un disco si deve già pensare alle collaborazioni o a scriverne uno nuovo. Ma non si pensa che la creatività e l’ispirazione spesso hanno tempi lunghi che vanno assolutamente assecondati e rispettati.

In quest’ansia di produrre e di invitare a farlo quanto contribuisce, secondo te, la difficoltà contrattualistica e il riconoscimento burocratico?

Di certo nel nostro Paese non mancano gli illetterati. Non sappiamo dare valore al lavoro dell’artista. Se suoni un certo tipo di musica o se scrivi un certo tipo di libri ti dicono, in modo sprezzante, che sei un intellettuale, un “radical chic”, termine che ultimamente sembra essere tornato molto di moda. Come se tutto ciò che non è di immediata fruizione, debba essere automaticamente considerato un sofisma per il quale non vale la pena perder tempo. È questo il vero male culturale dei giorni nostri. Gli ostacoli burocratici, per quanto reali, sono figli di un modo retrogrado di pensare all’arte e alla cultura. Non fraintendermi, sono fiero di essere nato qui, di avere alle spalle una forte tradizione culturale, ma, ahimè, in Italia nascono sempre meno Ivano Fossati e Bruno Munari. È la figura dell’intellettuale che oggi manca.

Andrea Poggio nella categoria “intellettuale” o artista non rientra completamente. Di mestiere, infatti, sei avvocato. I due volti riescono a convivere?

Credo che per dare indipendenza alla sfera musicale sia necessario parallelamente rendersi economicamente autosufficienti. Per me avere un lavoro nel senso più tradizionale del termine, anche se è una scelta dolorosa se si pensa ai tempi o agli spazi che tolgo alla musica, è necessario proprio per proteggere il lato creativo e renderlo indipendente da esigenze economiche o di guadagno.

Quell’indipendenza che ti ha portato a raggiungere traguardi notevoli. Com’è stata la tua prima volta su un palco da solo?

Direi intensa. Si trattava della presentazione del disco in Santeria (Santieria Social Club, a Milano, ndr). Oramai non pubblicavo nulla da 4 anni, mi sono trovato in una sala gremita di gente che mi attendeva con braccia conserte. Ero molto teso. Poi era la prima volta che mi esibivo cantando in italiano. Insomma, è stato un concerto di cui ho capito ben poco, oggi diciamo che, fortunatamente, è tutto più sotto controllo. Anche quando mi trovo a dare nuove forme alle mie canzoni. Ci sono state occasioni, come ad esempio l’apertura ai Baustelle, in cui per ragioni logistiche ho dovuto riarrangiare il disco e suonarlo solo chitarra e voce. Ed è stato decisamente stimolante.

Domanda di rito, quali sono i prossimi passi?

La cosa bella di fare un disco da solo è che puoi decidere in libertà ogni passo e non devi render conto a nessuno delle tue scelte. Penso agli arrangiamenti: mi piace pensare che il prossimo disco possa andare in una direzione completamente diversa rispetto a Controluce, magari più tradizionale, magari meno. Chissà.

 

 

 

 

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