Tutti noi abbiamo quell’amico che vediamo una volta all’anno perché vive in un’altra regione o addirittura in un altro Paese. Quell’amico che ritroviamo durante le feste, quando torniamo in città. Quell’amico che ha il suo motto, il suo modo di dire che ripete in continuazione, come un intercalare assurdamente costante tanto da diventare proverbiale. Quell’amico per cui ha senso prendere l’aereo e tornare a casa, perché sei sicuro che la sua carica e il suo fascino che, in realtà, invidi, ti farà andar via la stanchezza accumulata durante l’anno.
Ora, immaginate che il nostro amico sia losangelino di origine, di lavoro faccia il cantante e sia solito ripetere “Yes Lawd!” in ogni situazione in cui è felice.
Ecco, noi fan di Anderson Paak abbiamo aspettato il suo nuovo disco con la stessa trepidante attesa con cui contiamo i giorni che mancano alle vacanze e a quella birra sotto Natale per fare il punto della nostra vita con i nostri amici di sempre.
Dopo il boom di Malibu, che ha lanciato Anderson Paak nell’Olimpo della musica black, il rapper/soulman è tornato in studio per registrare e pubblicare, praticamente in continuità con il suo tour mondiale, il suo nuovo album dal significativo titolo Oxnard.
Se Anderson Paak, da quando è sulle scene, si è sempre definito capace di lanciare nell’etere una quantità di musica incontrollabile, grazie a singoli estemporanei e collaborazioni con una valanga di artisti, da Talib Kweli a Kaytranada passando per Elements of Music e gli Hiatus Kaiyote, è anche vero che questa grandiosa quantità di brani ha sempre fatto emergere la caratteristica che maggiormente ci fa apprezzare il musicista statunitense, ovvero la sua capacità di divertirsi facendo musica, la sua instancabile voglia di ridere suonando, cantando e componendo, quella voglia che fa sì che egli possa cantare, ballare, suonare la batteria sempre con un sorrisone stampato sul volto.
Gli occhialetti tondi con le lenti colorate di ordinanza gli permettono di vedere la produzione musicale come un gioco, un divertimento, e questo non solo influisce sulla sua capacità di interpretare la musica ma anche sulla sua abilità di farla, per trasporre sul disco la stessa gioia che è in grado di portare sul palco durante i suoi live.
La gioia della composizione fa sì che vengano scherniti i limiti tra generi musicali. Così il rap si mescola con il soul, la batteria con la loop station in un andirivieni musicale continuo in cui si sfreccia come su un’autostrada.
Se con il precedente Malibu Anderson Paak era riuscito a conquistare i nostri cuori con un mood più leggero, sensuale, ammiccante e provocatorio, con Oxnard ha deciso di tornare sui suoi passi per riscoprire le origini. Questo intento non solo è reso esplicito dalla scelta di intitolare l’album con il nome della sua città natale ma anche con la decisione di porre l’accento in maniera maggiormente decisa su una produzione più canonicamente rap: ritmi più ruvidi e rime sulle barre. Naturalmente, questo ripercorrere le orme della sua evoluzione (obiettivo espresso anche dal nome che c’è dietro la produzione e di uno dei featuring dell’album: Dr. Dre) non ha intaccato la liquida abilità di Anderson Paak di passare da un genere all’altro con una fluidità incredibile, abbattendo confini e limiti musicali. Questo fa sì che tra un brano e l’altro si passi dalle romantiche ballate di Brother’s Keeper al rap di Mansa Musa. La miscellanea così creata rende difficile trovare una continuità esplicita à la Malibu nel nuovo album ma, e forse questo è il più grande merito del lavoro di Paak, il fil rouge è definito proprio dal far passare questa apparente difformità per una continuità definita dalla gioia del fare.
Tra le varie caratterizzazioni che definiscono l’album c’è anche la sensazione che il mondo musicale si sia accorto dello straordinario potenziale di chi affronta l’arte con lo spirito giocoso dei bimbi. Infatti, il disco è definito dalla presenza di vere e proprie autorità musicali che hanno deciso di collaborare e impreziosire il nuovo lavoro di Anderson Paak, a partire dal già citato Dr. Dre fino a Snoop Dogg e, provocando un colpo al cuore bellissimo nei fan della old school, Q-Tip degli A Tribe Called Quest, per passare a Kendrick Lamar e J Cole, quasi a fare della tracklist una cerniera temporale a livello esistenziale per quello che riguarda la vita dell’autore e, in generale, per quello che riguarda la storia della musica rap.
Oxnard risente del non poter essere una vera bomba di novità ma il rimanere fedele al suo stile di Paak non ha come contraccolpo la monotonia, anzi l’album tiene bene, si fa ascoltare, riascoltare e amare anche e soprattutto per questa capacità di Paak di comporre brani in cui suoni tipici del passato della musica black, forti dei fiati e delle tastiere, si mescolano con il rap dei 90’s che, però, può subito tramutarsi in canzone grazie alla voce del losangelino che sostiene bene entrambi i generi. Alcuni pezzi sembrano figli dei lavori precedenti, in maniera forse un po’ ripetitiva. Il riconoscersi in un determinato stile è un diritto sacrosanto dei musicisti ma, complice il fatto di poterci aspettare di tutto da Paak, la continuità emerge come eccessivamente marcata. Questo vale soprattutto per le ballate da acchiappo del disco. Molto più solidi appaiono, invece, i pezzi di caratura squisitamente rap blindati dalle importanti firme che prestano le proprie rime alla buona riuscita di Oxnard.
Allo stesso modo, non si può non tenere in considerazione il fatto che Oxnard, Malibu e il precedente Venice sono da immaginare come tre capitoli di un unico lavoro, un concept album in tre atti incentrato sul tema della spensieratezza che prende il nome di Beach Series. Anche per questo era lecito aspettarsi qualcosa di organicamente simile ai precedenti lavori.
Così, spinto play sul nostro stereo, Anderson decide di farci salire sulla sua auto e di lasciare a Kadjha Bonet il compito di indicarci l’entrata nel suo mondo che si presenta con una base melodica degna di Shaft su cui il rapper inizia a incedere con il suo stile a metà tra il cantato e il parlato. Un’atmosfera da poliziesco anni ’70, dominato dal flauto e da un basso groove degno di Bootsy Collins. Il pezzo è trascinante e cangiante come una perla al sole, pronta a mostrarsi sempre diversa in base alla sua inclinazione.
Se The Chase ci sembra quasi un intro a una varietà di stili che ci aspettiamo di trovare proseguendo l’ascolto, la successiva Headlow sembra confermare l’ipotesi grazie al suo stile spudoratamente pop e radiofonico, reso tale dal ritornello in featuring con la nascente diva del new R’n’B, Norelle. Un pezzo che sa di vecchio e nuovo assieme e che, confermando le caratteristiche della musica di Paak, ti rende impossibile la vita se sei seduto perché tutto il resto del tuo corpo cercherà di ondeggiare.
Tints è stato il singolo di lancio di Oxnard, oltre a essere eletto come produttore di hype dell’anno. L’idea di poter sentire Kendrick Lamar rappare su una base di Anderson Paak ha incuriosito tutti i fan dei due artisti. Il risultato è un pezzo trainante come sempre ma che poco si avvale della collaborazione del figlio di Compton, autore di un semplice intermezzo; sentire Kendrick ridotto a orpello più che a pilastro di un pezzo fa sempre un effetto straniante.
Who R U, Mansa Musa (in featuring con Dr. Dre) e Anywhere costituiscono il trittico di pezzi di devozione a un certo modo di fare rap che, evidentemente per Paak, rappresentano la base del suo percorso di formazione musicale. Gli ultimi due, per altro, sono gli unici brani in cui Paak sembra disposto anche a fare un passetto indietro in segno di rispetto per i grandi nomi che duettano con lui (al punto di perdere anche un po’ della sua firma in Mansa Musa).
6 Summers è un pezzo dominato da ritmi orientali e cupi, da tessuti morbidi e colorati che separano la notte da stanze decorate con arabeschi e narghilé in un mood interessante fatto di tanti differenti fili armonici che si mescolano e uniscono a comporre un meraviglioso arazzo.
Smile/Petty è la classica canzone con cui Paak cerca di rimorchiare tutti gli ascoltatori: calda, suadente, lenta ma ballabile. Questa, assieme a Brother’s Keeper e Trippy (riuscitissima collaborazione con J Cole a riprova del rispetto che il meglio del rap storico e del futuro nutrono nei confronti di Anderson Paak) segnano un po’ il punto di congiunzione con Malibu e Venice e ci riportano ad atmosfere note ai fan.
Cheers è il pezzo forse più fresco e bello dell’album assieme a The Chase per due motivi: in primo luogo, ci si ritrova un concentrato puro del nativo di Oxnard tra basi armoniche riuscitissime (tra batteria e fiati), rap, sezioni cantate, anni ’70 e scorribande nella disco house; in secondo luogo, perché i nostalgici non possono rimanere indifferenti nel sentire Q-Tip ancora capace di mettere una firma inconfondibile sui pezzi grazie a una voce e ad uno stile che sono solo suoi.
Svestite le giacche variopinte anni ’70, Paak decide di lasciarci con un pezzo che sa solo di presente della musica. Abbandonate totalmente le ispirazioni vintage, la musica è libera di cedere a un ritmo da block party con influssi da djset in Left To Right.
Complessivamente Oxnard è un album in pieno stile Anderson Paak, in cui ci ritroviamo totalmente immersi nel mondo del rapper: gli si perdonano facilmente un po’ di richiami in virtù dell’essere Oxnard la chiusura di un trittico. Le suggestioni presenti nel disco fanno già pensare a nuove strade che la musica di Paak, ci auguriamo, possa prendere nell’immediato futuro.