Anatomia di Kanye: un disadattato prigioniero dell’hype

Crazy. Bipolar. Antisemite. And I’m still the king cringe. (semicit)

Spesso mi ritrovo a fantasticare su un mondo distopico e cinecomic dove l’Asse del Male “Kanye-Musk-Trump” combatte contro Taylor Swift, una sorta di Wonder Woman, paladina del Bene (pronta a rivelarsi – plot twist – una nemesi nazisatanista, demiurga del Quarto Reich).

Ho una chat con una cara amica, designer di moda, che è un k-hole privato dove riversiamo angosce, fantasie e deliri nichilisti. E in questi scambi spesso ci siamo interrogati su grandi questioni del mondo. Ad esempio perché Kanye West avesse così tanta accountability.

In quella stessa chat abbiamo edificato un nostro metaverso dove elaborare teorie, supportarci a vicenda e capire un po’ meglio le assurdità del nostro mondo. È grazie a lei e alla sua conoscenza di un certo mondo fashionista, a contatto con celebrities e personalità tossiche, che sono riuscito a comprendere il motivo del successo di Ye.

“Ci sono persone che a prescindere da tutto, ci credono così tanto e hanno un’idea così smisurata di se stessi, che alla fine dei conti riescono ad ottenere quello che vogliono. E li riconosci perché hanno quel qualcosa negli occhi”. 

Che più che pazzia è un fanatismo, non verso un ideale, una visione organica, ma unicamente verso loro stessi. Qualsiasi forma prendano, qualsiasi cosa diventino.

Alcuni la chiamerebbero “faccia da tolla” e devo dire che quegli occhi li ho visti nella faccia da tolla di altre persone (che ad esempio non vorresti a capo di una big tech e meno che meno alla guida degli Stati Uniti).

Per me Kanye West rientra in questa categoria. Un individuo così bigger than life che non riusciamo a capire perché è lì e perché ci interessa così tanto. Lo prendiamo tutti quanti come un dato acquisito. Ed il motivo sfugge soprattutto se proviamo ad utilizzare gli stessi paradigmi della critica “classica”. Non sono sufficienti, non sono più idonei per comprenderlo.

Posto che siamo tutti d’accordo sul fatto che abbia realizzato album importanti (My beautiful dark twisted fantasy, iconico), che abbia prodotto cose notevoli e che abbia influenzato una vasta pletora di artisti MA è altrettanto doveroso dire che quella storia è finita, e da un po’ anche, e ne è iniziata un’altra.

Una storia in cui a Kanye West è stato concesso tutto. Prima ancora delle sue boutade politiche e della diagnosi del disturbo bipolare, qualsiasi cosa facesse o dicesse, dalla musica alla moda, era accompagnata dalla parola “genio” o “leggenda”. Eppure gli indizi di un’egomaniacalità abusante erano tutti lì. Abbiamo fatto finta di niente e nel frattempo abbiamo costruito un mito, un Vitello d’Oro da adorare. Poco importa se musicalmente l’artista si esprimesse con prodotti sempre meno rilevanti e derivativi. La sua presunzione pareva bastarci per allontanare qualsiasi principio di critica o di sbadiglio, presi come inopportuni tentativi di lesa maestà. 

Se i Sex Pistols erano la grande truffa del rock n’ roll, Kanye lo è del rap. Solo che i Pistols sono durati meno dell’epopea di Ye. Quasi uno scherzo fuori tempo massimo che ha attraversato due epoche e due generazioni, che assieme hanno concorso a costruire il nume tutelare della cultura dell’hype in un nuovo mondo di hypebeast.

Una giostra dove praticamente tutto viene amplificato, pompato, sopravvalutato. Un mercato sorretto da plusvalenze ingiustificate e da nuovi media onnivori di qualsiasi contenuto che possa creare buzz.

Ok tutto, eppure: «Kanye non si discute». E certo, perché se mettiamo in discussione Kanye mettiamo in discussione l’intero ambaradan. Questo circo insensato, tra numeri pompati, fashion e collabo di street wear. Questo mondo ricco di limited edition ma di zero contenuto. E di tantissimi piccoli Kanye, che nel frattempo sono proliferati come conigli, impegnati in featuring compulsivi e capsule collection, come elementi di un gigantesco frattale.

Too big to fail, il fenomeno Ye continua a gonfiarsi, anche a fronte di qualsiasi deriva grottesca. Ognuno scelga la propria partitura preferita del kanyesfero. Il Kanye genio della musica e della moda. Il Kanye sedotto e abbandonato dai brand. Il Kanye bizzarrone antisemita. Il Kanye attention whore che, dopo aver imparato la lezione dalla sua ex moglie, ha raggiunto quello status di “essere famoso per essere famoso”.

Quando si innesca questo meccanismo si verifica una sorta di moto perpetuo. Il mondo dei media è ossessionato da Kanye, al quale non concede alcun diritto all’oblio, e anzi funge da cassa di risonanza alla portata dello stesso Kanye che compiaciuto ringrazia e si permette qualsiasi delirio egoriferito.

Spesso utilizzo uno spauracchio per scacciare il satanasso Ye e pure l’ologramma di Travis Scott. Un esempio per ristabilire l’ordine tra forma e contenuto: Kendrick Lamar.

Non vi annoierò con i miei anatemi e rinuncerò al mio apparato critico, ma Kendrick per me è quello che Kanye non riuscirà mai ad essere: ovvero un artista musicalmente rilevante, socialmente ispirazionale, intimamente profondo, esteticamente interessante. Bravo, creativo, figo, impattante, ma per davvero. Un instant classic, che non ha bisogno di tutto quell’industria dell’hype di contorno per affermarsi. È questa la differenza che passa tra un grande artista, in grado di catalizzare e di raccontare il contemporaneo, ed uno stream mediatico che forse è nel contempo il brand più arrogante e sovraesposto del mercato.

È con tutto questo bagaglio nella testa che affronto l’ascolto di Vultures Vol. I (che non è un nuovo album di Kanye ma un fifty-fifty con Ty Dolla $ign, va detto), in heavy rotation anche mentre scrivo questo pezzo. I miei bias mi conducono a godere nel leggere pezzi come quelli di Damir Ivic, vere e proprie esperienze liberatorie, e a skippare tutto il resto. Ma ascolto dopo ascolto, questo album che non sembra un album, incasinato, insoluto, mixato male, con le sue liriche grottesche e la sua mancanza di visione, mi entra nella testa, tanto da suonarmi persino godibile.

Ma può una cosa suonare buona anche se non lo è?

E poi arrivano i due listening party. Kanye sceglie Bologna e Milano, durante la settimana della moda, quasi fosse incapace di distanziarsi dal carrozzone del fashion system.

Più di qualche persona scopre così che Ye, in questi eventi, manco canta e manco in playback. La stampa parla di farsa, di un karaoke di lusso, o addirittura di una trollata. Damir torna a scoccare i propri strali contro Kanye, mentre i magazine “IG driven” per Gen Z mitragliano post per massimizzare le reaction. Le parole usate in questi giorni non si risparmiano in iperboli. Truffa, genialata, cacata megalomane, visibilio, convivono nello stesso pastiche.

È in queste occasioni che il turbo narcisismo di Ye e il fanatismo degli hype boys (mischiati con i presenzialisti del jet set) si rivelano per quello che sono.

Kanye non fa un concerto da due anni. I listening party sono un’esperienza d’ascolto – lo dice il nome – ed è un format consolidato almeno da TLOP del 2016, anche se sempre diverso. Non conta più la performance live, che non c’è, ma l’experience. Vado al listening party perché è il modo più esclusivo per mostrare di farne parte. 

Ci vado perché mi posiziono. Ed è infatti questo ciò che conta: esserci. Esperire per testimoniarlo. In questo caso con un sottotesto: l’opulenza di chi è disposto a spendere fino ai 200€ per ascoltare un disco già uscito giorni prima su Spotify o di chi è lì perché tiene di far sapere di essere parte della vip pass society.

È una cosa bella / è una cosa brutta? Non saprei, ma è di certo generazionale e figlia dei nostri tempi. Ed è colpa di Kanye? Probabilmente no. 

È un fatto ormai cristallizzato e accettato dalla “scena” (non riesco a trovare un termine meno demodè e nemmeno più bellino di “industria”, datemi una mano). L’artista chiama a raccolta, i fan rispondono. Un vicendevole adesionismo. Un mondo accecato dalla FOMO che si muove, quasi una simulazione reale degli algoritmi social, che scambia la propria performance sociale con l’emozione.

Da un certo punto di vista i listening party sono la quintessenza di Kanye. Uno spettacolo vuoto, senza performance e senza artista. Un rito autogestito dall’hype, giustificato dallo status di chi c’è (e che rende giustificabile l’esistenza dell’evento). La musica, che è una semplice base in sottofondo, è secondaria, sostituita dal framing, ovvero il rito, che ha qualcosa di misterico, fintanto che Kanye non si leva quel cazzo di passamontagna, creando giubilo e “sorpresa”.

Già, sorpresa, come scrivono le cronache locali, come se degnarsi della sua presenza fosse di per sé un contenuto. Mentre l’unica vera sorpresa sarebbe stata la faccia di Taylor Swift a comparire sotto quella cuffia nera. Lei o la faccia barbuta di un rabbino.

Questa gigantesca farsa non può che reggersi in piedi solo grazie alla gigantesca autostima di Kanye. La stessa scellerata pazzia che l’ha portato ad essere il paria più in hype del mondo della musica.

Quella stessa pazzia che ha reso Ye davvero indipendente. Solo contro tutti, non ha bisogno di nessuno. Può dire e fare quello che vuole, perché di fatto è incancellabile (una rivendicazione di cui Ye si fregia continuando a provocare). È la sua stessa mole a giustificare la sua presenza, come un pianeta gigante la cui gravità fa orbitare attorno a sé di tutto. 

In questo occorre riconoscergli un primato. Il suo valore è la solitudine. È l’elemento che lo rende più interessante, diciamo pure unico.

Una disfunzionalità malata, che non riesce nemmeno ad essere veramente punk, che non sembra voler esprimere contenuti e visioni. Pecci parla di trickster, a me viene più in mente il joker.

“Certi uomini non cercano qualcosa di logico come i soldi, non si possono comprare né dominare, non ci si ragiona né ci si tratta. Certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo”. Alfred ne Il Cavaliere Oscuro.

Ma non è solo questo. Kanye non può essere Kanye senza il funzionamento perverso di quella prigione di hype in cui è internato. Quella bugia collettiva che la sua fandom, anzi, l’intera scena, ha creato. Non ci sono ragioni razionali per mantenere in piedi l’intera impalcatura se non l’istinto di preservazione di un’industria ossessive ed ombelicale che produce valore puramente narrativo.

Non è musica, non è solo marketing, non è solo status, non è solo posizionamento, non è solo una questione di soldi, di glamour, di fama, di successo. È tutte queste cose assieme. Un castello che possiamo farci andare bene come anche no, ma che non si può più mettere in discussione.

Perché è più conveniente stare al gioco, far parte della giostra, accettare l’allucinazione collettiva, che dirci, con un picco di onestà intellettuale, “ma in fondo, che stronzata è mai questa?”.

Perché è molto più dispendioso cambiare idea e lo status quo (che dà da mangiare a troppa gente e giustifica l’ego di troppi posers) che difendere le nostre convinzioni ad oltranza.

I tribalismi sono prigioni. Questo è il limite delle nostre bolle in ebollizione. E Kanye è prigioniero della sua stessa tribù che non potrà sabotare nemmeno con il più illogico dei suoi gesti, se non la sua definitiva autodistruzione.

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