Il sole cadeva nel cortile, come in un pozzo. Il tavolo era coperto da una tovaglia di lino bianco, con le pieghe molto segnate, come se fosse stata per anni in un armadio senza mai essere usata. E i calici di cristallo azzurro sembravano pieni fino a traboccare di quel sole rabbioso, mescolato allo splendore del vino, rosso come il mogano.
Estate del 1936. In Spagna, in seguito al colpo di Stato che aveva provato a rovesciare il governo del Fronte Popolare, ha inizio la Guerra civil española che terminerà con la vittoria dei nazionalisti e l’instaurazione della dittatura di Francisco Franco. È l’estate in cui Ana María Matute – nata a Barcellona nel luglio del 1925 – compie undici anni. Quell’esperienza – l’orrore di una guerra fratricida che spezzerà in due il paese per decenni – segnerà tanto la sua infanzia quanto la sua fantasia di scrittrice, tra le più importanti del panorama letterario spagnolo del Novecento.
Su chi ricade l’orrore della guerra, quali i lividi e le cicatrici che rimangono sulla pelle di chi è stato esposto all’odio politico, alla disgregazione delle famiglie, alla caccia al vicino è la grande domanda che Ana María Matute si è posta lungo l’arco di una vita piena (è morta, ancora a Barcellona, nel giugno del 2014) provando a rispondere con le sue opere, incentrate soprattutto sull’esperienza dell’infanzia, sul rapporto misterioso fra la guerra dei grandi e le ripercussioni sul quotidiano e sulla crescita dei più piccoli.
Non fa eccezione Ricordo di un’isola, pubblicato da Fazi con la traduzione di Maria Nicola e che ha, innanzitutto, il merito di riportare sugli scaffali un testo ormai introvabile dopo l’edizione Sellerio del 1997.
Primeira memoria – questo il titolo originale – scritto nel 1960, è il racconto in prima persona, a distanza di anni, di Matia – abbandonata dal padre e orfana di madre – che, dopo essere stata espulsa dal convento dove studiava per aver dato un calcio alla vicedirettrice, viene mandata a trascorrere i mesi estivi sull’isola di Maiorca, ospite della vecchia Práxedes, sua ricchissima nonna.
Ricordo di un’isola, nel suo racconto – come fin dal titolo – di memorie, non è soltanto un tassello fondamentale della sua produzione letteraria vasta e varia, ma un libro luminoso che, dal suo essere romanzo di formazione si trasforma, pagina dopo pagina, in uno straordinario ritratto sulla perdita dell’innocenza.
La sua casa sorgeva nella parte bassa del declivio, già molto vicino al mare. Avevano degli olivi, un po’ discosti, e, sulla destra, mezza dozzina di mandorli. La porta dell’orto, arsa dal sale e dal vento, era sempre aperta (al contrario che a casa nostra, dove tutto rimaneva ostinatamente chiuso, come nascosto, come per serbare gelosamente l’ombra).
Maiorca è lo scenario perfetto di questa infanzia reclusa: l’isola, la vegetazione, la calura asfissiante, gli spazi angusti delle case e quelli aperti dei declivi e delle calette sono un fondale che sa farsi protagonista, specchio delle inquietudini che attraversano il mondo degli adulti e della Spagna, irrequietezze che non possono non toccare – nella prima estate di guerra – anche l’incanto dell’isola. La vita della quattordicenne Matia legata da un filo – il pupazzo Gorogò – all’infanzia, forse adolescente, certamente non ancora donna, trascorre languidamente tra le lezioni di latino con il giovane cinese Lauro – l’ambiguo figlio della domestica – e il rapporto, complice e conflittuale a un tempo, che la lega al cugino Borja, fascio di nervi e cattiverie adolescenziali con un padre lontano a combattere al fronte e una serie di piccoli imbrogli e meschinità quotidiane. Con loro, i figli della buona borghesia maiorchina, ragazzini viziati in un’estate sospesa tra gli echi della guerra e il primo desiderio di crescere. Eppure il microcosmo dell’isola già mostra altro, quella diversità qui rappresentata dai ragazzi umili, figli di pescatori, artigiani che formano la banda rivale in un gioco sempiterno che delimita il confine tra appartenenza e alterità dentro un meccanismo che replica – tra fantocci bruciati e colpi proibiti – le tensioni che agitano la Spagna. È da questo mondo che Matia resterà attratta, in maniera particolare da Manuel, – «possedeva un volto magro e duro. E gli incavi profondi degli occhi, e la lucentezza di legno consumato di quel viso, sembravano bruciarsi sotto il sole. Aveva gli occhi profondamente neri, con la cornea azzurrina. Non avevo mai visto occhi come i suoi, che facevano dimenticare – e l’ho dimenticato, infatti – il resto dei suoi tratti» – figlio maggiore di una famiglia emarginata da tutto il paese, ebreo e rosso, frutto di uno dei misteri che allignano nei meandri della sua famiglia – qual è stato il vero destino del padre di Matia? Chi è davvero Jorge di Son Major, arroccato nella sua casa sulle colline? – e verso il quale nutre un sentimento di fascinazione conturbante che segnerà il suo ingresso nella vita adulta.
Allora la sua mano si alzò e ricadde sopra la mia. Mi premette la mano contro la terra, come se volesse fermarmi, perché non cadessi là sotto, verso quella grande minaccia. Verso la vertigine azzurra e densa, allucinante, che avevo provato dall’alto della piazzetta dove bruciavano gli ebrei, a picco sulla scogliera. Come se con lui, con la sua mano, con la mia infanzia che se ne andava, con la nostra ignoranza e bontà, volesse affondare le nostre mani per sempre, conficcarle nella terra ancora pulita, vecchia e saggia.
Ma ancor più del primo amore, e dei sentimenti nei confronti di un ragazzo così diverso, pieno di dignità, serio e taciturno, a segnare il suo percorso di crescita sarà la scelta: quella della parte cui appartenere, del lato da cui stare, un percorso dominato da una consapevolezza istintiva – prima ancora di tutto – delle impressioni del mondo di là dalla sua famiglia, delle amicizie e delle ragioni degli adulti..
Ricordo di un’isola fu un libro amatissimo da Julio Cortázar e sua moglie Aurora Bernárdez, lo ricorda Mario Vargas Llosa: «Adoravano questo libro e ne discutevamo con entusiasmo. Ricordo persino che leggevamo insieme l’inizio, con quella descrizione esemplare, davvero magnifica, di una vecchia signora: una delle descrizioni più belle, precise, delicate che io ricordi in un romanzo del nostro tempo. Uno dei libri più belli scritti nella nostra lingua durante il ventesimo secolo».
Ed è, questo, un giudizio, difficile da non condividere. La prosa di Ana María Matute non è soltanto straordinariamente pulita ed elegante ma ha la capacità di fondersi col materiale che racconta. La sua è una scrittura nostalgica ed evocativa, capace di farci avvertire con estrema naturalezza la sfiancante afa estiva, la salsedine che lambisce le ferite che segnano gambe agili e dorate, gli sbuffi di fumo di sigarette di contrabbando, il calore che anima corpi contigui per un’ultima stagione prima che la scoperta del sesso conduca verso uno spartiacque non rimarginabile. Ma non solo: a fare da contraltare a una scrittura voluttuosa, capace di precipitarci negli anfratti rocciosi delle spiagge, sotto i palmeti abitati da colombe e pappagalli, nella natura rigogliosa delle ostinate agavi, ecco calare la sottile lama che scava nell’universo psicologico, come un coltello che si fa largo nel mistero e nel magico di una natura rigogliosa e abbacinante, lasciando emergere i prismi luminosi di menti fresche, svelte, scattanti, pronte a liberarsi delle brume infantili per – cedendo all’età adulta – occupare il proprio posto nel mondo.
La narratrice, più che raccontare, sembra quasi evocare l’estate fondamentale della sua infanzia, quella in cui smetterà di essere bambina per diventare qualcosa che assomiglia a una donna. E nel trasfigurare la sua biografia personale nel ritratto di una ragazzina abbandonata e – per questo – ribelle, perennemente a contatto con un universo maschile, brutale, selvaggio e violento – come solo sanno essere i bambini alla soglia della loro adolescenza – Matute fa entrare prepotente il potere disvelatore del mistero.
E non era precisamente per l’età, ma forse per come capiva a mezze parole tutte le cose che a noi sfuggivano
Nulla di sovrannaturale, beninteso, ma un mistero molto più profondo e più importante: quello delle cose del mondo che il bambino sa, ma non comprende e che l’adolescente smette di sapere per affrontare la strada di adulto, vale a dire quell’incessante e vana ricerca di un senso a ciò che lo circonda. Ecco, allora, che la guerra, con l’eco dei suoi orrori che si rispecchiano anche nel paradiso di un’isola – che non si mostra affatto immune dall’odio generale che ha preso possesso del paese – funziona come mistero massimo che aprirà le porte alla conoscenza e alla crescita. E la malinconia che attraversa le pagine, quello sguardo intimo e doloroso che si poggia con comprensione e dolcezza sui protagonisti, sembra essere l’omaggio a un’età destinata a passare, certo, ma per un ordine naturale e non perché consumata nello strappo di un orrore prematuro sopraggiunto a incupire la mitezza dei suoi colori tenui.