L’umorismo e il talento: Amy Winehouse, la ragazza che amava il jazz

La rapidità calviniana è una categoria buona per la letteratura. Azione è invenzione, fiction, se demandata alla scelta di un verbo o a un’immagine. La vita c’entra poco: quella cosa che piomba, inchioda, stravolge, ci avvita al suolo e spedisce. Ognuno a un indirizzo diverso, a velocità stellare e dissolvenza in nero. E se hai una storia-scheggia, come avrebbe detto Amy Winehouse: “hai davvero poco da aggiungere”. Quando hai troppo e troppo velocemente, tutto quello di cui hai bisogno è qualcuno che freni per te. Ma: “I ain’t got the time And if my daddy thinks I’m fine”. Così, in Rehab. Della vita delle stelle, sappiamo poco. Quanto durano, davvero? Il tempo è legato all’osservatore, e la regina del soul jazz inglese, angelo caduto a Camden Town, a guardare la sua storia a sette anni dalla sua scomparsa, ci appare lanciata a velocità folle. Una cometa, risucchiata nel buco nero di un album: Back to black, scivolata nella morte, proprio quasi come Marilyn Monroe. Forse un cuore non puoi riempirlo con la vodka, ma sentirlo meno, sì.

Quando una ragazzina non è stata amata, è quasi sicuro che cercherà amore nelle persone sbagliate. Finirà per cacciarsi nei guai, inseguendo nient’altro che il passato. Non riconosci se non quanto già custodisci: proprietà del destino, daimon, ridurci a storie lineari, geometria narrativa: il cerchio perfetto molto prima dell’invenzione dello storytelling. “I can’t help but demonstrate my Freudian fate”, in What Is It About Men. Due album: Frank per stupire. Back to black per innamorare. Se fu il pop a regalarle il successo, in una concessione che forse è già tradimento; o la voce, blue e profonda come la malinconia; o i testi, così schietti e taglienti, ironici e dolorosi, forse non è importante. Nemmeno la sua Londra irriconoscente lo è, una città di colpo invecchiata, dimentica dell’irriverenza e della spericolatezza di certe abitudini punk, della White riot e dell’Anarchy in U.K.: pronta a barattare la personalità con l’omologazione, facendo del conformismo un predicato della repressione, e del black humour una condanna per eccesso di libertà e sofferenza. Sorda al richiamo della Bellezza -il poeta dovrebbe esser sacro!- la città ha deprezzato la sua Ella Fitzgerald, isolandola e schernendola quando era più fragile. Quello che resta di “un’anima antica in un corpo molto giovane”, di ascesa e caduta: l’incredulità, ai Grammy Awards, nel 2008, quando sente che Tony Bennet è lì, probabilmente per premiarla: “Papà…Tony Bennett!” si rivolge al padre, il palco di una manifestazione mondiale come il salotto di casa in cui irrompe il Mito. E l’ironia, poco dopo, nell’apprendere il titolo dell’album di Justin Timberlake, tra gli altri candidati per l’album dell’anno: “His album’s called What Goes Around Comes Around!”.

Tutto questo in Amy, the girl behind the name, il documentario di Asif Kapadia, vincitore del premio Oscar, che ha già tre anni ma andrebbe recuperato: rivisto o scoperto. Per i filmati dell’adolescente Amy, in carne e cazzara, per le risate e le boccacce. Prima dell’overdose. Prima della voragine Blake. Prima del pubblico dileggio. Prima che si giocasse il cuore. Vale la pena per il talento luminoso e le risposte pronte di una ventenne brillante, stupida davvero come solo i ventenni sanno essere. E che ai vent’anni è rimasta inchiodata: forse all’Inghilterra manca un Guccini, che canti: “quante balle si ha in testa a quell’età”. Quelle che seguono sono poche domande al regista, Asif Kapadia. Potrei raccontarvi la storia incredibile dei giorni precedenti a questa stesura e di come ci sono arrivata, ma non sono il giovane Holden. Avrei potuto riempire i vuoti, facendo di una scintillante cornice un racconto di successo, ma non sono nemmeno Gay Talese.


Come è nata l’idea di un documentario su Amy Winehouse?

All’inizio non ero un grande fan di Amy Winehouse o della sua musica . La ragione per cui ho iniziato a fare questo film è perché lei viveva vicino a dove io vivevo.

Cosa ti ha colpito di lei?

Il senso dell’umorismo, mi ha colpito più di tutto. Lei era divertente e molto intelligente: brillante. Amava cantare ma soprattutto scrivere, e adoravo questa cosa. Ho amato il fatto che le sue canzoni fossero veramente personali, che risultino come le pagine di un diario.

Come si è svolta la lavorazione del documentario? Avevi già un’idea da sviluppare e su cui incentrare il racconto, o è andata delineandosi nel corso della realizzazione?

Durante la lavorazione di “Amy” ho parlato con forse 120 persone. A Londra, in Francia, in America, in Europa: ho parlato con davvero tante persone. A partire da tutte queste conversazioni e a partire dai filmati privati: quelle sono diventate le prove per la linea che ho adottato per questo film. E anche le parole delle canzoni di Amy. E quindi avendo parlato con tutte queste persone, avendo passato anni a fare ricerche su questo film, avendo ricevuto il permesso di fare questo film da così tante persone, il nostro sentimento è che dovevamo essere abbastanza coraggiosi da adottare una linea per il film che rivelasse dove noi credevamo che il problema fosse. Ovviamente, trattandosi di un film, quello che c’è da fare è mostrarlo e lasciare che il pubblico si formi la sua opinione. Ma a dire il vero c’è una sola persona (guess who, n.d.a.) che si è lamentata del modo in cui abbiamo ritratto questa storia. Tutte le altre persone, sia durante la lavorazione che dopo, hanno detto che il film è onesto, corretto a livello di fatti, e anzi per alcuni è anche troppo gentile.

C’è una favola di Oscar Wilde, “L’usignolo e la rosa”, in cui un usignolo lascia che una spina trafigga il suo cuore, affinché la rosa, che il suo amico regalerà alla ragazza di cui è innamorato, da bianca possa diventare rossa: muore per la bellezza di un’opera e per la gioia di altri. Pensi che Back to black sia la rosa di Amy Winehouse?

La mia impressione è che Back to black sia un unico grande grido di aiuto, una richiesta di aiuto. Io non credo lei volesse morire, anzi penso che cercasse di guarire. Da quello che mi hanno detto i dottori e gli amici, in questi casi spesso hai una piccolissima opportunità di guarire, e un determinato tempo per recuperare una persona, e cioè quando questa persona è pronta per essere salvata. Ma sfortunatamente questa opportunità fu persa. E dopo che questa opportunità è stata persa, dopo Back to black, lei è diventata famosa. A quel punto è stato troppo tardi.

Pensi che Amy abbia trovato in Blake uno strumento per realizzare una pulsione autodistruttiva che faceva comunque parte della sua personalità?

Io non credo che Amy fosse in cerca di autodistruzione, io penso che fosse una persona in cerca di amore, ma l’ha trovato con una persona che per prima aveva delle ferite, delle problematiche. Questa storia, e la dipendenza che ne è derivata, è durata 5-6 anni, un lungo periodo. Anche alla fine di questo periodo ci sono stati momenti in cui lei ha voluto guarire.

Il regista Asif Kapadia

Questo film è anche sull’industria musicale. Da Elvis Presley a scendere le case discografiche non sono mai state molto attente ai bisogni degli artisti, alle conseguenze della fama sul loro benessere.

Sì, in un certo qual modo questo film è anche sull’industria musicale, e su come sia poco interessata agli artisti, se non nella misura in cui possono portare soldi. Concerti su concerti: milioni su milioni, diventa una macchina inarrestabile. Quando inizi un film ne sai veramente poco di quello che sarà, si tratta molto di fortuna e di istinto. E il mio istinto era che qualcosa fosse successo e che a nessuno sembrava importare, qualcosa doveva essere andato male. Qualcuno è morto e tuttavia non si era investigato intorno a questo crimine. Il mio approccio è stato investigare su un crimine che si era consumato sotto la luce del sole. Una giovane ragazza era morta e tutti incolpavano la ragazza. E quindi in un certo modo era anche un film che voleva rispecchiare i media, e le persone che compravano un biglietto di un suo spettacolo solo perché erano convinti che tra un po’ sarebbe morta. Ed era veramente terribile vivere a Londra e vedere che tutti si sentivano autorizzati a prendere in giro questa ragazza che in realtà stava soffrendo, era nei guai.

Tu hai realizzato prima un documentario su Ayrton Senna, e poi su Amy Winehouse: cosa accomuna queste storie o cosa le differenzia?

“Senna” è un film su un uomo, sulla Formula 1, ed era un film molto mascolino in un certo senso, sull’America Latina, sullo sport. E io adoro lo sport ma non volevo fare un altro film sul mondo dello sport. “Amy” mi è sembrato l’antitesi del film su Senna, con questa ragazza molto insicura e molto chiusa, a cui davvero importava solo cantare in piccoli jazz club, e poi questo sistema e la popolarità che alla fine ne ha determinato il destino. Inoltre Senna l’ho realizzato dopo 10-15 anni dalla morte del pilota, nel caso di Amy, quando ho iniziato a lavorarci, tutto era ancora molto crudo. Nessuno ancora ne aveva parlato in questo modo. Il film è un commento sulla società di oggi. Perché le persone con cui io ho parlato erano ancora in quell’ambito e sono state anche promosse. Ed è stato interessante perché mentre facevo il film mi capitava di incontrare per strada le persone che facevano parte del film e di quella storia. E’ anche un film su Londra, su Camden, di cui conosco tutte le strade e in un certo qual modo approcciava tutto quello che amo di questa città, e quindi il fatto che una ragazza ebrea potesse fare del jazz con delle influenze hip hop. Ma nello stesso tempo approcciava tutto quello che odio: i media che si accaniscono sul più debole e traggono piacere e gioia dalla sofferenza altrui.

Che effetto speri di aver prodotto in chi ha guardato il documentario?

La mia ambizione era che la gente non guardasse più a lei allo stesso modo, che riuscisse a vederla in modo diverso rispetto alle aspettative che aveva prima di vedere il film. Speravo che dopo aver visto il documentario non ascoltassero più le sue canzoni nello stesso modo. Siccome io sono arrivato a vederla in modo diverso, volevo che anche loro avessero un’idea diversa .

Pensi di esserci riuscito?

Spero di sì. Poi non so se le cose sono cambiate, ma in parte era anche per far prendere coscienza e responsabilità al mondo dei media e della musica, della possibilità di portare alle stelle e distruggere persone, a volte giovanissime, usando entrambe le cose per far soldi. Forse niente è cambiato ma volevo che almeno le persone diventassero coscienti di questi meccanismi.

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