“L’Europa spetta a Picasso, a Matisse e a molti altri. L’India spetta solo a me”
Il caso non esiste. Ci sono sempre condizioni non esterne ma interiori, inconsce ed emotive che sono alla base di quell’attenzione che è il tratto più distintivo che è capace di generare la fascinazione. Mi è successo pochi giorni fa scorrendo in maniera quasi annoiata la home di Instagram per imbattermi in un set di quadri che mi hanno colpito fin da subito e fino all’ultima immagine – una fotografia – della donna che li ha dipinti un secolo fa. Quella donna si chiamava Amrita Sher-Gil, e mi guardava da quella foto con occhi incredibilmente familiari come uno sguardo catturato alcune vite fa ma ancora capace di comunicare oggi, quando è già trascorso un quinto del primo secolo del nuovo millennio. Quegli occhi sono stati la porta d’ingresso di una storia che voleva essere raccontata. E che non avrebbe smesso di tormentarmi fino a che non mi fossi messo sulle tracce del suo percorso per coglierne la scintilla.
Amrita nasce il 30 gennaio del 1913 a Budapest in Ungheria, da una famiglia agiata: suo padre – Umrao Singh Shergil Majithia – apparteneva a una famiglia Sikh dell’alta aristocrazia terriera, con possedimenti ereditati dal nonno di Amrita che aveva combattuto contro l’Impero britannico guadagnandosi il titolo di Raja. Umrao era uomo di grande inclinazione filosofica, appassionato di sanscrito e persiano, di religione, filosofia e astronomia, che parlava fluentemente cinque lingue; sua madre – Marie Antoinette Gottesman era invece una cantante d’opera ungherese di radici ebraiche. Suo zio materno, cui si deve la sua prima educazione, era l’importante indologista Ervin Baktay, che – forse non a caso – aveva iniziato la sua carriera proprio come pittore.
Amrita vive un’infanzia gioiosa e spensierata. Fin dall’età di cinque anni si diverte a trasformare in acquerelli le fiabe raccontate dalla madre, resta impressionata dalla vita delle campagne intorno a Budapest, dai castelli di epoca feudale, dalle case colorate dei braccianti. Non va a scuola ma è seguita da un precettore che le insegnerà la sola lingua materna. Quando le si chiederà il momento preciso in cui ha iniziato a dipingere, lei risponderà in maniera perentoria “da sempre”. A otto anni, nel 1921, trascorre il suo primo periodo nel Nord dell’India. Qui, oltre all’interesse per la pittura – che inizia a prendere forme più concrete -, si appassiona anche alla musica, imparando a suonare il violino e, soprattutto, il piano che l’accompagnerà per l’intera vita. A Simla l’incontro con il maestro inglese Hal Bevan Patman sarà cruciale: sarà lui, infatti, a consigliare alla famiglia una prima educazione artistica più formale che la condurrà nel 1924 a Firenze, alla scuola cattolica di Santa Annunziata. In meno di sei mesi la giovanissima Amrita si ribellerà alla disciplina severa e ortodossa dell’istituto fino a esserne espulsa per aver disegnato un ritratto di nudo.
Tornerà in India dove resterà fino al 1929. Lì il tempo trascorrerà ancora presso una scuola cattolica – dove riuscirà ancora una volta a farsi espellere, stavolta per il suo convinto ateismo – quindi tra la campagna di Summer Hill e il piccolo villaggio di Saraya dove cominciano a crescere l’attenzione e l’amore per la gente umile del posto.
Nel 1927 è grazie all’interesse di uno zio che la famiglia comprende in maniera ormai irrevocabile la necessità di una vera scuola formativa, e quando Amrita ha sedici anni – è il 1929 – la famiglia asseconda appieno il talento della ragazza, dandole la possibilità di trasferirsi a Parigi dove avverrà la sua formazione più regolare e ortodossa all’Ècole des Beaux-Arts sotto la guida di Pierre Vaillant prima, quindi di Lucien Simon, pittore che non fu mai impressionista in senso pieno e che rifiutò sia il cubismo sia il movimento dadaista di quegli anni, ispirandosi maggiormente a Èduard Manet, Diego Velásquez e Frans Hals, legandosi a un’idea di pittura basata più sulla composizione che sul colore, amando degli ultimi due soprattutto i ritratti dei singoli, dei gruppi di persone, dei paesaggi. Temi che ritroveremo nell’ispirazione di Sher-Gil. Amrita resterà in Europa fino al 1934, quando tornerà in India. E in tutto questo periodo la sua produzione artistica sarà fortemente influenzata dalla pittura occidentale. In questi anni il suo talento troverà un’espressione in gran parte accademica: nature morte, studi di nudo e ritratti.
Negli anni trascorsi a Parigi, Amrita scopre per la prima volta il mistero dell’anatomia umana, conoscendo l’importanza della linea, della forma e del colore. Qui nasce la passione per Gauguin e Cezanne soprattutto, ma anche per van Gogh e Modigliani, la Negro Art e il Primitivismo. Eppure manterrà, fin da giovanissima, la promessa di non rischiare una forma di derivatismo pittorico scegliendo – più che ai tratti pittorici – di legarsi alle intenzioni dietro le opere (amava particolarmente la dichiarazione di Van Gogh di “voler dipingere nei colori del rosso e del verde gli elementi delle passioni umane”). Nei tre anni alla Scuola di Belle Arti vinse ogni anno sia il premio per la miglior natura morta che quello per il miglior ritratto. Nel 1931, per la prima volta, espose un dipinto al Grand Salon che colpì la critica per la sua forza e vigore. L’anno successivo propose una tela stavolta più grande, intitolata Young Girls che sarà premiato come Dipinto dell’anno, rendendola la persona più giovane a ricevere tale onore. Nello stesso periodo sarà la prima indiana – e primo artista dell’intero continente asiatico – a diventare Membro del Grand Salon. I suoi primi lavori saranno influenzati dallo stile europeo, in particolare dal post impressionismo.
Sono anni alla scoperta della vita artistica della capitale francese e del suo fermento notturno. Amrita diviene presto una figura familiare nella penombra dei fumosi café della Parigi più bohémienne, verso le cui trame notturne si lascia avviluppare col suo caratteristico abbandono. Gli anni parigini – per una ragazza così curiosa e così piena di vita e d’idee – sono anche quelli più sfrenati, sospesi tra la dedizione alla pittura e l’euforia di relazioni amorose spregiudicate nella Montmartre post impressionista. Quelli parigini sono anche anni tormentati, contraddistinti da una delusione d’amore che la segnerà per il resto della vita con un giovane indiano anche lui di buona famiglia, e la tragedia personale di un aborto (che non sarà l’ultimo della sua vita). In questo periodo il suo interesse costante per i ritratti di nudo la spingono sempre più nella scia del primitivismo di Gauguin: a questa fase appartiene uno dei primi capolavori, Autoritratto come una Tahitiana. Ed è questo nuovo interesse che la spinge poco a poco verso il ritorno non alla terra madre – che resta quella magiara – ma quella delle radici paterne e d’elezione: l’India.
Gli anni parigini sono stati, infatti, anche quelli in cui è emersa la sua consapevolezza di non appartenere alla cultura pittorica europea, che il suo elemento “non poteva essere quello di un grigio studio occidentale”; che per trovare la sua espressione più autentica aveva bisogno “dei colori e della luce del suo Oriente”. “La visione dell’inverno in India – desolata eppure bellissima – le tracce infinite di una terra illuminata da raggi grigi e gialli, di corpi scuri, facce tristi, di donne e uomini incredibilmente magri, che si muovono silenziosamente come ombre sottili e sui quali regna un senso di indefinibile malinconia”
Torna in India nel 1934, ha vent’anni ed è bellissima. La descrive così N Iqbal Singh: “era il 1937, ed ero al Davico’s, un café alla moda di Simla. Dentro, ognuno sedeva davanti al suo aperitivo; conversazioni in sottofondo e l’accompagnamento di un valzer viennese dall’orchestrina. All’improvviso, salì sulle scale e restò per un attimo sulla soglia una bellissima ragazza con addosso degli abiti dei colori che avrebbe potuto scegliere Gauguin per lei nei suoi vent’anni – sottile, minuta, slanciata – era Amrita Sher-Gil. Ogni conversazione tacque, tutti gli sguardi si rivolsero a lei. Indossava un sari di un verde vivido con una blusa rosso fiammante, pesanti orecchini tibetani con scintillanti lapislazzuli come solo ornamento. Il suo volto poteva essere descritto solo come una meraviglia di simmetria. Era luminoso, mobile e immensamente vivo. I suoi occhi brillavano allegri, di un’allegria che sembrava piena di felicità, ironia e di buonumore. Aveva i capelli nero corvino, nettamente separati al centro.”
Malcom Muggeridge, il celebre scrittore e giornalista che l’avrebbe amata fin dal primo incontro la definì di “una bellezza stravagante […] tesa, nervosa, eccitata e ossessionata dalla sua pittura”.
Presto si ritrova, grazie al suo talento, al centro della vita artistica del paese non senza occupare un ruolo di stretta polemica con parte dell’establishment, mettendo in luce la personalità forte, esplosa nella spaccatura delle sue tante fratture e molteplicità: donna ricca e indipendente, eppure figlia di un matrimonio misto, a metà strada tra due culture e due modi di intendere la pittura, persino la sua non troppo nascosta – per i tempi – bisessualità la collocava come elemento di rottura costante negli standard della società dell’epoca.
In India la sua attenzione si sposta sul popolo e sulla condizione femminile tanto da farne un’icona di femminismo. Poveri, gente comune, contadini: come il suo sguardo si poggia sempre più sul cuore delle cose e sulla loro essenzialità, così il primitivismo di Gauguin incontra il suo sempre più crescente interesse verso una forma pittorica maggiormente essenziale e di sottrazione che si basa sull’uso del colore e la geometria delle forme. Dall’India, Amrita, recupera un rapporto fortissimo con la luce: le sue tinte si fanno sempre più nette, maestose, audaci e sensuali.
Amrita ha, a questo punto, ventitré anni ed è sul limite del suo fiorire artistico. Il suo non è un avvicinarsi all’India da straniera, non è lo sguardo europeo su un mondo pittoresco e folklorico. È l’incontro di un’anima fortemente ispirata dalle sue radici indiane – familiari e culturali – che si avvicina all’India dopo aver maturato una sintesi con l’altra metà della sua storia familiare e della sua formazione artistica e culturale in toto.
Una volta dirà: “Appena ho posato i miei piedi sul suolo indiano, la mia pittura ha subito un cambiamento radicale non solo nello spirito e nel soggetto, ma anche nell’espressione tecnica. Diventando in maniera sostanziale indiana.” Dopo una breve frequentazione della Scuola Santiniketan, lasciata perché ispirata da uno stile troppo “effeminato e sentimentale”, inizia lo sviluppo di un proprio stile orientato tanto alla rappresentazione femminile che allo spirito femminista. “Ho realizzato che la mia missione artistica non era solo quella di dipingere ma di interpretare la vita degli indiani e in particolare dei poveri, da un punto di vista dell’immagine dipingendo la loro infinita e silenziosa pazienza e sottomissione, fino a riprodurre sulla tela l‘impressione che la tristezza dei loro occhi mi aveva ispirato”.
Lei, dunque, che veniva da una famiglia agiata inizia a raccontare – attraverso disegni e ritratti – non le signore delle famiglie benestanti ma donne provenienti da comunità e villaggi rurali, delle classi medie e disagiate. Diventando così, in poco tempo, un modello di ricerca delle proprie radici e della propria identità nei circoli artistici indiani.
Il suo ritorno è la storia di un’immersione totale, piena di curiosità nella tradizione dell’arte pittorica indiana: dalle miniature mughal – sviluppatesi alla corte dell’Impero Mughal tra il XVI e il XVIII secolo – alle pitture rupestri delle grotte di Ajanta, con entrambe che ebbero un enorme impatto su di lei.
I suoi dipinti sono dominati soprattutto dai colori del rosso e del bianco in una sintesi che risulta vibrante, vivida e intensa. Influenzata fino a quel momento enormemente da Paul Gaguin, Amrita progressivamente si avvicinò negli anni indiani a uno stile tutto suo che non solo la rese la prima artista moderna del Punjab ma, di fatto, dell’intera nazione, gettando le basi dell’arte indiana moderna.
È soprattutto nel triennio dal 1935 al 1937 che il suo stile viene messo a punto, lì dove raggiunge la sintesi perfetta tra tecnica occidentale e la capacità di cogliere – ma sarebbe forse più giusto parlare di riappropriarsi – dello spirito indiano. In questa fase Amrita conduce il proprio stile verso una maggiore semplificazione della forma e l’eliminazione di dettagli superflui.
Quello con l’India è, del resto, un incontro cercato e atteso: Amrita s’immerge in un vero e proprio viaggio dentro la cultura pittorica del paese compiendo un percorso che la porterà a introiettare la cultura pittorica indiana e da cui nascerà la cosiddetta Trilogia del Sud, uno dei vertici della sua produzione composta dai dipinti La Toilette della Sposa (dove è palpabile l’influenza degli affreschi di Ajanta), Abitanti di un villaggio del sud che vanno al mercato e Brahmacharis. Quest’ultimo in maniera particolare sarà apprezzato anche dai critici e da quell’establishment che le era avverso.
Hill Women, Hill Man, Siesta, Elephants bathings in a green pool precedono la Trilogia, anticipandone il talento e dandole modo di dedicarsi anche a motivi più descrittivi come alberi, fiori e foglie nei suoi dipinti.
Sono, questi, gli anni dell’incontro con il giornalista inglese Malcom Muggeridge. Sarà una storia appassionata e tormentata, oltre che breve, ma che lascerà nel tempo i segni di un affetto reciproco. Di lei, Muggeridge dirà: “Dipingeva con una fame feroce, sudando mentre lavorava. E̔ l’istinto animale che Amrita in qualche modo trasferisce ai colori, che riesce a mischiare e che poi schizza sulla tela. Il suo senso di pura sensualità era fortissimo e la sensualità del mondo, quindi il crescere delle cose, gli animali, i colori – che erano ciò che davano alla sua pittura una forte vitalità – le provocava un’intensa gioia”.
Nel giugno del 1938 torna in Ungheria per sposare il cugino, il dottor Victor Egan, cui è stata promessa da tempo. Lì a Budapest le starà stretto il ruolo di moglie all’interno di un matrimonio di certo infelice anche se non privo di rispetto e affetto. Nella nuova breve parentesi ungherese Amrita si avvicina alla scuola di Nagybanya e si appassiona a Bruegel; nuove influenze che si aggiungeranno a quelle già maturate. In Ungheria dipinge poco – il dipinto più celebre di questa breve fase sarà Scene da un mercato ungherese. Tornerà in India l’anno dopo, per sua volontà e per i venti di guerra che ormai soffiano prepotenti sull’Est Europa.
Il suo stile, nell’ultimo periodo si allontana dal naturalismo per abbracciare un mondo maggiormente immaginario. Se in un lavoro come Hill Women aveva sperimentato l’uso delle ombre per creare forme più rotonde, in una delle ultime opere – Red Clay Elephant – si concentra più sul colore, eliminando quasi del tutto l’uso di una profondità dimensionale.
L’ultima fase della sua carriera sarà, infine, ispirata anche e soprattutto alle figure femminili: le forme si fanno sempre più essenziali e prive di profondità, i colori – ancora più caldi – virano sempre più verso il rosso trasmettendo una sempre più marcata sensualità. Sono gli anni di dipinti quali L’altalena, Donna al bagno, La sposa e Donna riposa sul charpai. L’ultima parte della sua brevissima vita si svolgerà nel vicino Pakistan, a Lahore. Qui la casa di Amrita diventerà il centro di un circolo culturale animato da poeti, scrittori, musicisti e artisti in genere. È l’ultimo periodo della sua stagione artistica la cui primavera sarà improvvisamente interrotta. Sprofondata in una depressione che la strappa tanto alla vitalità umana che a quella artistica, il 3 dicembre del 1941 Amrita si ammala improvvisamente e morirà alla mezzanotte del 5 dicembre per ragioni che rimangono tuttora misteriose (forse le complicazioni di un aborto, forse una malattia grave; non mancano nemmeno sospetti sul marito).
Di lei restano le opere e la sensazione di un’artista arrivata a recuperare le sue origini come una liberatrice, capace di sottrarre l’arte indiana alla polvere del tempo per restituirle lucentezza, colore, dignità e valore.
La sua influenza sui pittori coevi non si sviluppò solo attraverso l’espressione della sua arte ma anche attraverso articoli in cui chiedeva con passione di non abbandonarsi “a tradizioni una volta vitali e sincere, ridotte ormai a mera formula” come anche a non imitare, d’altro canto, pedissequamente l’arte occidentale ma di puntare invece a “staccarsi da entrambe per produrre finalmente qualcosa di vitale, legato alla terra e che fosse indiano nella sua stessa essenza”.
Il suo essere ponte tra due mondi la resero un’osservatrice perfetta dello spirito indigeno, capace di afferrare l’intimità della cultura orientale dopo aver esplorato la moltitudine di quella occidentale.
Un ponte tra due culture, dunque, una donna al centro di una rivoluzione e di una rivendicazione prima di tutto personali, priva di barriere e pregiudizi, capace di coltivare con costanza la ricerca e l’espressione della propria libertà.
Rispetto alla sua missione artistica ebbe una volta a dire parole che suonano come un testamento artistico e spirituale: “Interpretare la vita degli indiani e in particolare di quelli poveri, attraverso le immagini. Dipingere queste scene silenti di infinita sottomissione e pazienza, raffigurare i loro corpi scuri e spigolosi, così stranamente belli nella loro bruttezza; riprodurre sulla tela l’impressione che i loro occhi tristi hanno su di me; interpretarli con una tecnica nuova, la mia sola e personale tecnica che possa trasformare ciò che altrimenti sul piano emotivo potrebbe apparire semplice, a un piano che possa trascenderlo e comunichi qualcosa all’osservatore che deve essere esteticamente sensibile per poter ricevere la stessa sensazione.”