Dopo L’ospite e altri racconti, Safarà editore continua l’opera di traduzione in italiano dei racconti della visionaria cuentista Amparo Dávila, con la pubblicazione di Morte nel bosco e altri racconti, dando vita ai “cuentos reunidos” della scrittrice messicana, tradotti da Giulia Zavagna. Con l’uscita della prima raccolta nel 2020, i lettori italiani avevano potuto conoscere la voce perturbante di Amparo Dávila, i suoi testi affilati, racconti stranianti come il gogoliano “Fine di una lotta”, lo sguardo onirico e inquietante de “L’ospite”. Il 2020 è anche l’anno in cui la scrittrice viene a mancare, all’età di 92 anni; l’anno in cui il Messico piange la sua regina del racconto; l’anno in cui gli articoli su Amparo Dávila si fanno più densi, e tuttavia c’è ancora un alone di inaccessibilità intorno alla figura della cuentista messicana, alla sua gioventù solitaria nella città mineraria di Pinos, un posto avvolto da una nebbia di storie di fantasmi e misteriosi seppellimenti, dove la paura della follia e della morte si insinuano nel processo di riemersione di immagini e storie di Amparo Dávila, pungolano la sua mente inquieta, e là rimangono incastonati.
“Non credo nella letteratura basata sulla pura intelligenza o sulla sola immaginazione, credo nella letteratura esperienziale.”
Amparo Dávila comincia a scrivere le prime storie acerbe a dieci anni. La sua gioventù, popolata di letture nella biblioteca del padre, si traduce presto nell’impulso di inventare, prendere in mano una penna e scrivere. A vent’anni pubblica la prima raccolta di poesie, più avanti trova la sua dimensione di scrittrice nella forma del racconto. L’originalità dei suoi racconti fantastici e stranianti colpisce presto i lettori; c’è qualcosa di unico nella voce di Dávila, chi la legge riconosce un urto, un guardarsi allo specchio con certe paure, esperienze, insensatezze. La prima raccolta di racconti, Tiempo destrozado, conquista un altro grande cuentista come Julio Cortázar. Leggendo le sue storie disturbanti, Cortázar ne ammira la tecnica e la maestria, non può fare a meno di ripensare a certe atmosfere dei racconti dell’amato Edgar Allan Poe. Quando si incontrano, Julio Cortázar vorrebbe conversare di Poe, ma Amparo Dávila è lapidaria: nega di averlo mai letto, “mi viene la colite quando ci provo”, dice. Lui si stupisce, le regala un libro di racconti di Poe. Dávila prende il libro sotto il braccio, sorride e si porta via il segreto insieme a lei.
Kafka, D.H. Lawrence e certe illustrazioni della Divina Commedia di Gustavo Doré, più di Poe; così ricordava Amparo Dávila le sue influenze dirette. Non ha mai svelato troppo da dove avessero origine le sue storie e come le arrivassero addosso. “Qualsiasi cosa, un paesaggio, una strada, una casa – o come diceva López Velarde, l’odore del panificio – mi riporta a un’esperienza e poi le storie cominciano a emergere”. La letteratura esperienziale, per come la intende Dávila, non è fantasticazione horror, ma un riemergere di processi stranianti e ricordi: da una certa strada, una stanza, o un ricovero in ospedale, si aprono le fantasticazioni di una mente aperta e mistica che vede e sperimenta paure, sdoppiamenti, terrori. Da lì nascono le favole nere e i distillati di immagini che sono i suoi racconti.
“Prima ci fu un immenso dolore. Un lento sgretolarsi nel silenzio. Un disarticolarsi nel vento oscuro. Perdere d’un tratto le radici e ritrovarsi senza appoggio, in una caduta sorda. Precipitare da una cima molto alta.” (Tempo Distrutto)
Nel visionario “Tempo Distrutto”, Amparo Dávila dilata la realtà e distorce l’orologio che misura il tempo, fino ad annientarne il senso. La protagonista si muove in uno spazio di immagini – un arabo che vende stoffa, la tenuta di Huerta Vieja, un treno claustrofobico –, istantanee generate da una mente che segue il suo libero flusso, una scrittura che corre svincolata come quella di una poeta o profetessa in stato di abbandono. Si sente qui l’influenza della prima voce poetica di Amparo Dávila, un seguire allucinato di immagini in movimento. Dalle sue prime parole, “Tempo Distrutto” è un capolavoro di fantastic-azione. Un poema in forma racconto.
Racconti come “Tempo Distrutto” o “Alberi pietrificati”, sono la parte “mistica” e “poetica” dell’opera di Amparo Dávila, scritti dove si lascia trascinare dal suo talento visionario, stacca i piedi da terra, parte per i mondi dell’altrove e ce li racconta così come li vede e sente. Nei momenti più affilati Amparo Dávila si immerge invece nella carne del reale, e improvvisamente schizza via nel conturbante, con un dettaglio o un finale. La “scrittura esperienziale” dilata l’esperienza al di là del corpo fisico, verso i mondi della mente, le sue inquietudini, i suoi fantasmi, le sue ossessioni. Così Amparo Dávila arriva a oltrepassare le barriere di ciò che chiamiamo esperienza; là dove si può vedere, fantasticare, impaurirsi, sentirsi chiusi dentro una testa o una camera, disallinearsi, e costringersi.
“La signorina Julia” che si avvilisce per un’invasione di topi in casa è un esempio di tecnica esperienziale della scrittrice messicana; nel racconto il lettore segue Julia senza sapere se i topi siano una allucinazione o la realtà. Altrettanto allucinante il possente flusso di pensieri che avvolge la mente della donna che si ritrova a passare una notte di terrore all’“Hotel Chelsea” di New York, quello cantato da Leonard Cohen e dove nella camera 205 è morto Dylan Thomas. Nel racconto la protagonista tenta di fuggire da un claustrofobico Chelsea Hotel, che è lugubre solo perché la sua mente lo vede lugubre − ed è questo che capita con Dávila: la mente può arrivare a vedere mostri, in una percezione soggettiva dove sogno e realtà possono disallinearsi nell’incubo che si sta vivendo addosso.
Con Amparo Dávila siamo piantati sulla soglia dell’equivoco: questo crea una tensione che ci porta a leggere i suoi racconti fino alla fine in uno stato irreale di sospensione. Spesso i suoi personaggi sono chiaroscuri, ambigui, hanno dei doppi – come l’uomo di “Fine di una lotta” che vede passare sé stesso in compagnia di una bionda, e si insegue. In “Matilde Espejo” la tensione del racconto è una corda tesa costruita sulla voce della narratrice della storia, una vicina di casa della signora Matilde che non riesce a coglierne le ambiguità anche quando diventano evidenti. In “Un biglietto per un posto qualsiasi” il protagonista riceve la visita di un uomo con un messaggio; ossessionato dalle mille ipotesi sul contenuto del messaggio, decide di scappare via. Sono pensieri umani quelli nella testa dei personaggi di Amparo Dávila, anche quando si tramutano in azioni assurde, ma è proprio in questa assurdità che riconosciamo i nostri impulsi primitivi. A volte i finali della scrittrice messicana arrivano velocemente, sono bruschi, hanno l’effetto di un taglio a secco – e questo li rende perturbanti.
“Non coprimmo mai più lo specchio. Eravamo stati scelti e accettammo quel destino senza ribellione né violenza, ma con la disperazione che accompagna ciò che è irrimediabile.” (Lo specchio)
“Lo specchio” è un racconto del fantastico, appare sulla pagina come un’Aleph capace di indurre visioni in chi lo guarda, e stimola una bella connessione con l’elemento del fantastico borgesiano. Probabile che se le avessimo domandato di Borges, Amparo Dávila avrebbe scrollato la testa, detto che leggerlo le provocava l’emicrania; e tuttavia l’effetto del perturbante nelle storie di Amparo Dávila – persino quelle più malate e cupe e insane – sta nel suo elemento fantastico, nella capacità di immaginare quel dettaglio che sta oltre quello che succede, di vedere nello specchio i riflessi di figure-mostri, di raccontare lasciando che siano le storie a parlare per lei, e che la nostra immaginazione si stupisca di rimando. In certi momenti è catartica; sfavilla. Nel racconto “Il patio quadrato”, si abbandona totalmente al fantastico, molla ogni ormeggio terreno e ci fa naufragare in una perdizione di immagini che riflettono un’ossessione per la morte – “e cominciai a retrocedere…”, ripete, in un ritmo che va avanti sfrenato come una danza.
“I latinoamericani pensano tutto il giorno alla morte”, notava Juan Rulfo. Nei racconti di Amparo Dávila il pensiero della morte è sempre all’erta, si insinua, mentre le parole scorrono naturali sulla carta, e la lettura stessa diventa esperienziale, una danza mistica nella testa della scrittrice messicana. Amparo Dávila è una cuentista perfetta, l’incarnazione di certi manuali del racconto vagheggiati da Čechov e Quiroga. Tagli in faccia, parole secche, niente riempitivi. Nei suoi visionari cuentos, la malattia e il dolore e l’improvvisa follia, sono porte magiche d’accesso al fantastico; chi la legge non può che abbandonarsi e andare, ovunque voglia portare la sua eccezionale percezione del mondo.