Se in un delirio di onnipotenza avessimo mai pensato che i problemi della vita da millennial fossero circoscritti alla piccola Europa, o in uno slancio di globalizzazione ampliati almeno agli Stati Uniti, questo è il romanzo giusto per correggere il tiro. Kavita Bedford, scrittrice e giornalista australiana, esordisce nella letteratura con “Amici e ombre“, edito da E/O e tradotto da Leonardo Gandi, la vicenda di una protagonista senza nome, trentenne precaria nella gentrificata Redfern, sobborgo di Sydney.
Siamo al The Block a Redfern; un appezzamento cementato concesso trent’anni fa agli aborigeni e spacciato per “edificabile”. La nostra strada è uno spazio progettato dal governo, fra binari del treno, pali del telegrafo e terrazze sgangherate. Uno spazio costretto a essere reimmaginato come una sorta di resa dei conti spirituale. Un pezzo di terra riempito di tribù differenti e famiglie strappate alle loro vie d’acqua, e all’aria salata, e alle loro canzoni. […] Due strade più in là c’è un palo del telegrafo su cui qualcuno ha scritto “Fanculo la gentrificazione”. Proprio questa settimana dei manifestanti indigeni si sono accampati fuori dalla stazione ferroviaria per protestare contro la ricollocazione domiciliare forzata. (18)
In questa babele vivono «la comunità indigena, e quelli delle case popolari, e gli studenti, e i giovani professionisti», tutti uniti nel sentirsi, in qualche modo, «derubati delle loro libertà».
Una voce narrante anonima di madre indiana e che ha perso il padre, bianco australiano, da un tempo piccolo e infinito insieme; la rielaborazione del lutto è un crescendo e avviene senza grandi proclami. Leggendo si assiste alla crescita delle sue consapevolezze, ai ragionamenti sui privilegi e mancanze, e si navigano i cambiamenti della città e del mercato del lavoro che, sorpresa delle sorprese, anche in Australia svilisce l’individuo.
L’intero romanzo è dal suo punto di vista, quello di un’osservatrice meticolosa che racconta la città attraverso l’incarico di lavoro più recente: scrivere le storie degli immigrati, come vivono la città, e tratteggiare il loro percorso di vita e sopravvivenza in un ambiente che li ha sempre penalizzati. Da freelance pagata a progetto scrive di imprenditrici nate in Siria che vendono Hijab, di fotografi disoccupati, di tassisti e artigiani alternativi, e innesta queste storie nei suoi ricordi col padre, la città, gli amici e i coinquilini. Vive, infatti, con altri tre personaggi in una casa condivisa in cui i ritmi non si sincronizzano mai, le discussioni partono dalla possibilità concreta di assumere una collaboratrice domestica e si arenano nelle riflessione sul classismo di questa scelta. Il tutto è impregnato del senso di colpa della loro generazione, figli di genitori immigrati schiacciati dai doveri e le aspettative di riscatto. Sami, per esempio, è vincolato al suo futuro di avvocato fortemente voluto dai genitori palestinesi e dal quale non può svincolarsi. «Io credo di cercare il diverso. Un modo di vivere diverso. E di fare qualcosa che duri» dice Sami, ma poi, sopraffatto dall’altro senso di colpa, quello indotto dal sistema capitalistico e performativo che abitiamo senza soddisfarlo mai, si dice: « […] ce la faremo. Siamo gente fortunata noi».
Le frasi veloci e corte di Bedford, la scrittura snella che arriva anche a metafore spesse e poetiche, i dialoghi immersi in paragrafi di riflessioni personali e ricordi, raccontano la schizofrenia di questi tempi e dei comportamenti che ci impongono.
Stasera ci si traveste, […]. Non si parla dei mondi interiori, delle nostre ferite. E nemmeno della mamma che quando ora chiama ci sono lunghi silenzi ai due capi del telefono. Nessuna delle due sembra sapere cosa dire e allora metto in viva voce e girello per casa […] lascio che il tempo scorra fra noi e sugli oceani.
Sono millennial in distress, si direbbe in inglese, un misto di angoscia e disperazione per un bisogno non soddisfatto, quello di una vita a rincorrere aspettative per la strada segnata da altri e nel percorrerla si esauriscono fino a perdere aspirazioni e identità.
Bedford, e la sua voce narrante di riflesso, è precisa nei ritratti individuali, nella cronaca delle emozioni e struggente quando si immerge nel dolore privato; il romanzo costruito intorno alla protagonista è più frammentario, salta di episodio in episodio, di personaggio in personaggio, ma questo non è necessariamente un difetto e ricorda, come notato dalla critica, una versione più compressa dei ritratti già composti dalla scrittrice Rachel Cusk nella sua Outline trilogy. Ci si fa subito l’abitudine e non si perde mai il contatto con l’intimo della protagonista.
Il Guardian ha definito quella di “Amici e ombre” una “Millennial city life”, propria delle grandi città anglosassoni, ma estendibile, per certi versi, anche alle crisi esistenziali dei millennial italiani ed europei. «Impermanency is built into their lives» scrivono altrove, e chiudendo un occhio, anzi due, sembra parlino anche di me e della periferia barese in cui esisto. Di peculiare c’è, però, c’è il lavoro di Bedford nel ritrarre l’immigrazione nella grande città australiana, i controsensi del governo, le battaglie, il degrado e il trauma di nati in Australia, ma con tutto da dimostrare ancora, anche quando il privilegio e le possibilità economiche allontanano dal sopracitato degrado. E se le ombre del titolo potrebbero identificarsi con l’ombra opprimente del futuro mancato che hanno sulle spalle, l’anonimato della protagonista non è un buco narrativo, né la rende un’ombra in sé, ma si trasforma in una chiave di lettura personale e universale allo stesso tempo.
I sobborghi di Sydney raccontati da Kavita Bedford sono vari, umani, multirazziali e complicati, dove per complicati si intende un misto di disastro umanitario (come le restrittive politiche immigratorie del governo australiano) e luci di speranza (come quelle delle sfilate del gay pride, della creatività imprenditoriale, di un tentativo di senso di appartenenza). E la sintesi perfetta è nella copertina dell’edizione italiana del romanzo, con uno spaccato di vita sugli scogli del fotografo Andrew Quilty, che ritrae individui che potrebbero essere felici, ma anche sull’orlo del baratro, in un eterno altalenare. Come le nostre vite adesso.