Avvertenza: c’è poco sapore di recensione classica qui dentro.
Il fattore probabilmente più esplosivo di American Hustle è l’intreccio narrativo della storia, e il modo in cui è raccontato. ”Non è tanto quello che dici ma come lo dici’‘ è una delle regole (per quanto non si possa mai parlare di regole in certe cose) auree della narrativa in qualunque modo tu scelga di farla, con una penna o una cinepresa in mano. Sono quei piccoli dettagli del racconto, o come scegli di vestire un personaggio, che tipo di storia gli butti addosso, con quali parole lo fai parlare e quale vocabolario gli metti in bocca per l’occasione. Se devo partire da un elogio al film devo dire che è difficile essere divertenti in un mondo così divertente, dove le possibilità del divertimento sono diventate improvvisamente più ridotte delle note musicali da mettere assieme per creare sound originali. Però il film di David O. Russell ci riesce. E forse ci riesce perché ironizza sull’America e i suoi stereotipi, e in fondo quando ci vediamo umanamente così stereotipati ritratti da qualche parte, con le nostre piccole idiosincrasie, non ci resta che ridere dell’umanità.
Bisogna partire dai dettagli. Dal capello phonato di Carmine Polito, il politico del New Jersey che si fa fottere da tutti, a tratti profondamente ingenuo (personaggio che ricalca la storia di Angelo Errichetti, italo-americano pure lui), e che richiama in fondo uno Sean Penn d’altri tempi nel look. Una fantastica Jennifer Lawrence, di cui bisognerebbe incastonare dettagli in modo più profondo di quanto possa fare io. Per esempio, il modo in cui sa reggere una sigaretta, che non so mica lo stesse facendo recitando o con quell’aria perfettamente integrata nel ruolo della moglie frustrata, ma anche un po’ stronza, e per giunta intrisa dal complesso di essere scema. Questi sono gli anni settanta americani, con quelle note di White Rabbit che per un attimo diventa cantata in arabo nella colonna sonora notevole della pellicola.
Se c’è una cosa che dovrebbe valere per ogni recensione/opinione, quando le scriviamo, è la consapevolezza che stiamo partendo da un secondo me, la consapevolezza che siamo di fronte a una questione di gusto, come mangiare le polpette piuttosto che l’insalata. O anche che siamo un’umanità fortemente sensibile agli umori. Ultimamente noto una vena polemica che attraversa il cinematografo, ci sprechiamo molto inoltre in guerre tribali sulla giustizia e l’ingiustizia di un premio per un film, come se il Mondiale di calcio del 2006 dovesse essere meno una vittoria per la nazionale italiana che ha giocato male, di catenaccio. In fondo nel mondo dei premi quello che conta è il risultato. Per questo in questo angolo non troverete verità ultime, o un consiglio su se sia il caso di vederlo o no, se la scelta all’Oscar sia giusta o sbagliata: non sono questioni interessanti. Quando parliamo di cose soggettive come può essere un film o un’opera d’arte che se ne vada a puttane ogni tentativo di evangelizzazione. Tipo il bianco e il nero. Lo dice il protagonista, Christian Bale, durante il film: non esiste solo il bianco e il nero. Ed è esattamente questo l’aspetto che mi è piaciuto, le roboanti sfumature dei dettagli del film.
O l’uso del vocabolario. Non so per quale assurda associazione o proto-fissazione, ma ho trovato qualcosa della narrativa di Wallace in alcuni momenti del film, saranno alcuni complessi psicotici-schizofrenici, o quel modo di associare l’aggettivo scientifico a un forno (l’espressione forno scientifico possiede un’immediatezza meravigliosa). Saranno i capelli della Lawrence, che esplodono in pettinature schizoidi (no, non guardo i film per gli attori protagonisti). O quando l’agente dell’FBI e la finta Lady inglese vanno a ballare in discoteca, e quasi scopano dentro il cesso (un cesso perfettamente contemporaneo, anche se fuori c’è la palla luminosa della sala perfettamente anni settanta). Il tutto è tratto da una storia vera, che rende le cose ancora più affascinanti: lo scandalo Abscam.
La storia ha il sapore di una colossale truffa. Una spirale di tristezza auto-ironica avvolge i personaggi. Che poi si sa, alla fine anche i grandissimi truffatori hanno le loro debolezze, lo sa bene il truffatore per eccellenza Irving Rosenfeld quando cede ai ricatti della moglie Rosalyn che non riesce a lasciare. Tutto sommato quel laconico lieto fine in cui le cose vanno bene quasi per tutti tranne che per l’agente ballerino che per tenere in tono i ricci mette i bigodini a casa con la madre, quel lieto fine quasi pomposo stona un po’ con il modo in cui la storia è graffiante per certi versi.
Non ho mai capito se i lieto-fine siano qualcosa che siamo stati abituati a vedere per coltivare le nostre speranze, o illusioni, se è un vizio che abbiamo ereditato dalla Disney per esempio, o se risale a vecchissime storie da focolare; però ogni lieto fine mi sembra sempre incompleto, perché tanto poi le cose cambiano il giorno dopo del momento in cui si è spezzata la storia. In fondo capita a tutti che in un momento della vita le cose si mettano per il meglio, sembra tutto essere felicemente risolto. Ma io me la vedo già Rosalyn annoiata col suo nuovo marito della malavita, a odorarsi le unghia e ballare da sola in una casa vuota che va a fuoco.