Non esiste terra di mezzo
tra inferno e paradiso.
— Nizàr Qabbàni
Nove anni di guerra civile in Siria questo marzo. Nove anni di lotte, di persone che fuggono, di case abbandonate, di quotidianità interrotte, di abitudini ormai perdute – solamente ricordate. Nove anni di violenze, di torture e fughe – di potenze e impotenze straniere che si avventano sulla terra, avvoltoi che tuonano sopra le libertà umane, accordi e ostilità. Disgrazie: prendi tutte le tue cose e scappa. Vai verso un’altra nazione, anche la terra più vicina, e aspetta di tornare. Per non tornare mai, essere cacciato ancora, affondare in altri mari. Non è mai finita, anche quando pensavi che fosse finalmente finita, che si potesse tirare il sospiro di sollievo estremo, non è mai davvero finita – e arrivava la speranza, e se ne andava lo stesso. Sventrati di sussulti umani, così si andava avanti.
Appena due anni fa vi raccontavamo la storia di uno scatto del foto-reporter Joseph Eid, che aveva immortalato un vecchio siriano che faceva suonare un giradischi meccanico nel mezzo delle macerie della sua casa di Aleppo. Chissà se è ancora lì il vecchio, a lasciar suonare la sua musica antica, nell’avvilita speranza che tutto prima o poi torni come prima della guerra – chissà se è ancora vivo, e chissà se sogna ancora mentre le generazioni future di siriani continuano a vagare nell’infinita odissea dell’ultimo decennio. A guardarle – ancora oggi e a distanza – le immagini dei siriani che ancora provano a cercare un po’ di pace su questo angolo infetto di terra, scacciati via dalla Turchia per essere scacciati via dalla Grecia, indesiderati da tutti, non si direbbe che sia cambiato poi molto in questi anni; si direbbe piuttosto che esista un perverso tramandarsi di memorie che riguarda questa casuale mappa di mondo che abbiamo chiamato Siria, e tutti i suoi abitanti. Laggiù, di avvoltoi, ne sono passati tanti – nessuno che abbia mai avuto un po’ di perdono. E così questa gente diventava appena una quota, da rivendere alle nazioni, e poi ancora una minaccia – un popolo ridotto a una ritorsione che si spandeva da un confine all’altro. Nel mezzo la tragedia di Iblid, le bombe e il fetore ostile della morte, cadaveri di poco conto che occupavano appena i fondo-pagina delle notizie. Forze governative e ribelli in lotta, i curdi lasciati allo sbando, gli stranieri da una parte e dall’altra, i venditori d’armi e i portatori di terrore. Questo era il destino di chi era rimasto, ma per chi era fuggito le cose non si erano fatte migliori – e i remi prendevano a colpi le barche. Un contrabbando di cuori interi, e i loro strazi.
Altrove da qui c’è un’intera ipotesi di vite umane che non viviamo, eppure esistono – tutti i giorni e tutti i momenti dell’anno. Qualche volta per nove anni. Altrove da qui c’è l’ipotesi di dove avremmo potuto essere vissuti: nati, e perduti, nel tiro di dadi del caso. Altrove da qui ci sono le parole dei poeti siriani, gli strazi dei diseredati della terra, le botte prese sopra la pelle, i sogni andati a puttane di un’intera gioventù, l’amore perduto degli innamorati, e il sonno. Forse è questo il fatalismo – lasciarsi ardere per tutto il mondo in fiamme, estremamente soli dentro l’ipotesi di un confine che qualche conquistadores ha messo a terra. Nel nono anno di guerra in Siria il mondo resta una storia allo sbando, e la storia non mostra alcun segno di essere progressiva, né abbiamo traccia di una sua crescita lineare – si va avanti e si va indietro, gli uomini come esseri minuscoli sballottolati dentro il tempo, a calpestare terre remote e queste terre. In fondo la stessa.