Nel buio fitto delle campagne californiane, salgono al cielo, più sinistre che mai, le note di Sympathy for the Devil. Improvvisamente la voce di Mick Jagger si interrompe una prima volta per richiamare alla calma il pubblico sotto al palco. La musica riprende, ma durante la cadenzata Under My Thumb, il diciottenne afroamericano Meredith Hunter viene ucciso da alcune coltellate sferrate dal violento “servizio d’ordine” degli Hell’s Angels. Pare che il giovane, evidentemente su di giri, a pochi metri dal palco, volteggiasse una pistola tra le dita, e tanto basta a scatenare la violenza della gang di motociclisti che per tutta la giornata aveva disseminato atti di violenza gratuita con la scusa del “mantenere l’ordine”. Questo è soltanto il più tragico, tra i tanti episodi violenti di quelle ore, come ampiamente documentato anche in Gimme Shelter, il documentario che immortala questa triste giornata. Riavvolgiamo il nastro e ricostruiamo a grandi linee storia e contesto.
Il concerto dei Rolling Stones ad Altamont, in California, del 6 dicembre 1969, per svariati motivi, a partire da quello cronologico, segna la fine degli anni Sessanta, e di gran parte delle sue utopie, fatte di flower power, psichedelia, peace and love e tutto l’immaginario legato alla spinta propulsiva che quel movimento, generazionale, ma non solo, aveva lasciato intravedere. Purtroppo la fama di Altamont è indelebilmente legata alla violenza che mette in mostra, contando addirittura, per cause diverse, ben quattro morti: una delle pagine più nere della musica live.
Raccontare Altamont non è semplice, perché è una ferita profonda nella storia del rock; per svelarne fino in fondo il senso, le vicende, l’atmosfera, il clima, i presupposti e le conseguenze ogni cosa andrebbe contestualizzata e compresa anche nel significato simbolico oltre che nella portata epocale. Sarebbe ingiusto porlo come un resoconto finale e al negativo di un decennio di sogni e speranze di una generazione che si libera dal pessimismo e dall’ incertezza post bellica per guardare con più speranza al futuro, ma è pur vero che su tanti aspetti sarà un punto di non ritorno, un vicolo cieco da cui per molti sarà impossibile uscire. Certo, la musica rock andrà avanti, attraverserà i Settanta sfornando ancora molti capolavori; album fondamentali per la formazione delle generazioni a venire, ma pienamente espressione dell’industria discografica, e parte integrante di un sistema che ne avrà ormai fagocitato e rimesso in circolo le energie a suo uso e consumo, impacchettando quell’anima che invece urlava libera, nei Sessanta, una possibile rivolta.
Sebbene qualche protagonista più lungimirante – come il beatle George Harrison – già nell’estate del ’67, in piena Summer of Love ed esplosione psichedelica, affermasse che il meglio fosse forse già passato, e le droghe, non più tanto leggere, cominciassero a condizionare troppo lo “stare insieme”, soprattutto negli Stati Uniti. È pur vero che fino alla fine del 1969 si vivranno ancora momenti collettivi di grande intensità e comunanza, quanto meno nelle intenzioni e nello sforzo costruttivo.
A pochi passi dal cuore hippy di San Francisco
Altamont è un luogo emblematico, sia perché si trova in California, a poca distanza da San Francisco, indiscussa capitale hippy, sia perché arriva a pochi mesi dal grande raduno di Woodstock; senza contare che nel ’67, in piena Estate dell’amore, la California aveva già ospitato il festival di Monterey, probabilmente l’espressione migliore di quegli anni. Dalla fine del ’68, dei segnali di cambiamento cominciano a intravedersi, anche dal punto di vista musicale. Bob Dylan e i Beatles, stavano progressivamente abbandonando la psichedelia per riscoprire o ritornare al folk e al blues. Lo stesso Lennon di fatto, anche se formalmente lo farà McCrtney, scioglie i Beatles riflettendo sul fatto che “Il sogno è finito”, in un’accezione più generale e sociale.
Come se non bastasse, oltre Altamont, ad alimentare questo nefasto periodo che mette in relazione musica e violenza in quel lasso di tempo, va ricordata la strage di Charles Manson e della sua setta, ai danni, tra gli altri, dell’attrice Sharon Tate. Senza dimenticare che gli stessi Rolling Stones, qualche mese prima, avevano dovuto affrontare la morte di Brian Jones, deceduto in circostanze misteriose, sebbene di fatto già buttato fuori in malo modo dal gruppo. A poche ore dal decesso la band dedicherà a lui un memorabile concerto ad Hyde Park, a Londra. Un concerto imponente e vissuto sulle ali della commozione di molti fan, ma che certamente strideva con il modo in cui, soprattutto l’asse Jagger-Richard, forse perché imbeccati dal manager, stavano abbandonando a un declino solitario e autodistruttivo, quella che era indiscutibilmente l’anima artistica più fulgida della band, fin dalla fondazione. Sì perché Brian era davvero il volto e l’anima degli Stones delle origini. Appassionato di musica nera al punto da farsi chiamare Elmo Lewis, tipico nome del Delta del Mississippi, e musicista già conosciuto a Londra anche prima di far parte dei Little Boy Blues & The Blues Boys, quelli che poi il 12 luglio del 1962, salgono sul palco del Marquee Club cambiando nome in Rolling Stones.
Tuttavia gli Stones, a livello musicale e compositivo, in quegli anni a cavallo di Altamont e del decennio, sono nel loro miglior momento; quanto meno a livello commerciale, riuscendo a sfornare in questi pochi anni, uno dopo l’altro (Beggars Banquet, Let It Bleed, Sticky Fingers, e Exile on Main St.) gli album che li consacreranno nel tempo. Proprio Altamont sarà il palco su cui per la prima volta suoneranno dal vivo le note di Brown Sugar. Negli ultimi mesi dell’anno la band inglese, finalmente libera da vincoli legali, può lasciare i confini dell’isola senza problemi, e attraversare in tour gli States. L’idea del concerto in California ha un’origine incerta: pare sia nata anche a causa delle critiche ricevute per l’eccessivo costo dei biglietti del tour; ragione questa, che li spinse ad accordarsi per un live gratuito con l’invito di altre band. Altra ipotesi, forse complementare, è che gli Stones, che negli anni precedenti, per diversi motivi, non avevano preso parte ai grandi raduni rock storici avvenuti soprattutto in America, volessero in qualche modo rimediare. Ma come accennato, molte cose andarono storte, in quello che fu presentato dagli organizzatori come una piccola “Woodstock”.
“Woodstock il sogno, Altamont l’incubo”
Il concerto inizialmente doveva tenersi nella città di San Francisco, ben più adatta per un evento simile; ma poco prima, alcuni problemi burocratici e amministrativi sembrarono negare questa possibilità. L’unica soluzione, sebbene non la migliore, come si rivelerà in seguito, risultò essere il circuito automobilistico di Altamont (Altamont Speedway), in mezzo al nulla. Da quelle parti pare che non si potesse fare nulla senza fare i conti con gli Hell’s Angels, una banda di motociclisti. Piuttosto che inimicarseli, si ebbe la sciagurata idea di far gestire loro niente di meno che il “servizio d’ordine” della manifestazione. Queste premesse, insieme a quelle logistiche, non lasciavano presagire niente di buono. Servizi igienici assenti o comunque non sufficienti per centinaia di migilaia di persone; palco basso e senza alcuna barriera protettiva, luogo isolatissimo. Tra realtà e leggenda pare che gli Hell’s Angels furono pagati a “birra”.
Il chitarrista degli Stones, Keith Richards, ricorda come, a peggiorare il quadro, in circolazione ci fosse il peggior vino mai conosciuto, acidulo e a basso costo, che segnò la giornata di molti. A fronte di tutto questo però era previsto un cast spettacolare e abbastanza rappresentativo della scena rock, soprattutto della scena “west coast” americana, con molte band da poco scese dal palco di Woodstock. Si trattava infatti di Santana, Jefferson Airplane, Flying Burrito Brothers, Crosby Stills Nash e Young, Grateful Dead, oltre naturalmente, ai Rolling Stones in chiusura. Ma andò tutto storto.
Le violenze
Il primo pugno importante della giornata se lo beccò in faccia proprio Mick Jagger, appena sceso dall’elicottero, accompagnato da un “Ti odio!” senza ulteriori spiegazioni da non si sa chi. Ma le provocazioni degli Hell’s Angels furono solo la via scelta per menare le mani. Parcheggiarono i loro “chopper” di fronte al palco, pretendendo che nessuno li toccasse. Immaginate questa fila di moto posteggiate a pochi metri dal palco sotto al quale circa trecentomila persone avrebbero dovuto assistere a un concerto pieno di rockstar. I motociclisti, oltre che di coltelli, erano muniti anche di stecche da biliardo segate e usate tipo manganelli, con cui colpirono chiunque per tutto il tempo e molto spesso senza validi motivi. L’immunità non era riservata nemmeno alle suddette rockstar, tanto che fu malmenato finanche Marty Balin, una delle voci dei Jefferson Airplane, episodio che convinse definitivamente i Grateful Dead a rinunciare all’esibizione. I Rolling Stones erano pur sempre l’attrazione principale e nonostante tutto ritenevano di poter portare sollievo con la loro esibizione, portando a termine la giornata alla meno peggio. Ma non andò così.
L’omicidio
Ma ritorniamo a Meredith Hunter. Il giovane “sciroccato come tutti gli altri e con la bava alla bocca” si avvicina al palco; indossava un cappello su un abito verde limetta e evidentemente non era tanto in sé, ma soprattutto, impugnava una pistola. Viene colpito mortalmente da cinque coltellate degli “Hell’s Angels” a cui non sembra vero avere anche un pretesto per scatenare la loro violenza. Gli Stones interrompono momentaneamente l’esecuzione di Under My Thumb, ma dal palco, non si accorgono immediatamente della tragedia. Smettono di suonare solo per qualche istante, per aspettare che cessi quella che pensavano essere solo una baruffa lì sotto, per poi riprendere lo show con l’inedita Brown Sugar, e continuare la scaletta con (I Can’t Get No) Satisfaction, Honky Tonk Women e Street Fighting Man.
Molti particolari dell’accaduto, Mick e soci li rivedranno fino allo sfininimento grazie al documentario che permetterà anche di individuare come principale colpevole dell’omicidio, il motociclista Alan Passaro, arrestato e processato ma poi scagionato nel 1972 per “legittima difesa”. La pellicola diretta da Albert e David Maysles, vedeva tra i cameraman un giovanissimo, e sfortunato per l’occasione, George Lucas, che a causa di una caduta della sua macchina da presa tra la folla, perse decine di ore di riprese. Il film, come detto, si rivelò utile alla ricostruzione delle dinamiche dell’omicidio. In seguito ebbe anche una vita propria, sebbene presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Cannes nel 1970, fosse stato accolto negativamente dalla critica. È probabile che il peso della tragedia che documentava e la fine certificata in tempo reale di un epoca, non lo rese particolarmente appetibile. Il bilancio di Altamont tuttavia, se possibile, fu ancora peggiore, infatti a Meredith Hunter si aggiunsero altre tre vittime, due per incidente stradale e un’ultima trovata annegata in un canale.
Qualche presagio forse si poteva cogliere già dal fatto che solo il giorno prima, il 5 dicembre, fu lanciato sul mercato il disco degli Stones Let it Bleed – Lascia che sanguini . E quella sera pare che si fiutasse il pericolo anche senza identificarlo con chiarezza, infatti Keith Richards, annusando in quel momento l’aria, ci lascia, nella sua autobiografia, questa descrizione di Altamont e forse della fine di quel sogno :
“Lo si sentiva nell’aria che avrebbe potuto accadere qualsiasi cosa. ….non appena il sole tramontò calò il freddo. Fu allora che l’inferno di Dante cominciò a risvegliarsi.”