Alla scoperta del rap siculo-tedesco di Pufuleti

a cura di Mariachiara Oliva

Se c’è una cosa difficile da fare, è sicuramente quella di imprigionare Pufuleti in un genere musicale, etichettarlo. Pufuleti non si definisce, non vuole essere definito e non si può definire. Certo, potremmo dire che il suo è un rap siculo – tedesco, ma sarebbe comunque riduttivo. Facciamo un salto indietro e procediamo per piccoli passi.

Pufuleti nasce a Naro in provincia di Agrigento e si trasferisce in Germania durante i primi anni dell’infanzia. In casa parla il siciliano, la lingua della sua famiglia e fuori si esprime in tedesco. Diventato popolare in Germania con il nome di Joe Space, una volta arrivato a Roma grazie a Misto Mame (collettivo artistico che ha sede in un appartamento di San Lorenzo), diventa Pufuleti nel progetto italiano. In tour con Natava e chianciva, il 19 settembre scorso è approdato a Torino per esibirsi ai Docks Dora negli spazi di Povera (casa d’arte fondata da Massimiliano Alfì e da Giulio Pereno).

Quando varca i cancelli dei Docks, sono le 15 del pomeriggio. Non è solo, con lui c’è Lapo Sorride, l’artista che lo supporta durante i live nonché curatore di C.A.M., la fanzine che anticipa e accompagna l’uscita di CATARSI AIWA MAXIBON, il nuovo disco di Pufuleti. Maglietta azzurra, pantaloncini, calzettoni in evidenza, Pufuleti parla distesamente – davanti a un piatto di amatriciana – con Lapo, i membri di Povera e di Amphibia (giovane collettivo torinese che ha collaborato all’evento). Come tutte le persone dotate di carisma, anche nei momenti di silenzio, Pufuleti è in grado di emanare la stessa potenza di quando lo si ascolta in cuffia. Sebbene “l’uomo in silenzio è più bello da ascoltare”, questo antico proverbio giapponese non va bene per lui. Pufuleti va ascoltato, deve essere ascoltato e preferibilmente a volumi molto generosi. Ore 18, momento del soundcheck: chino su se stesso, comincia a rappare e l’atmosfera si prepara ad assumere toni sempre più accesi come quando si assiste a un’eruzione vulcanica. Pufuleti diventa un fuoco ardente. Ma è soltanto durante il live serale che la prepotenza della sua lava musicale avrebbe raggiunto l’apice.

Sono le 23 circa, il concerto è sold out da giorni, i cancelli dei Docks stanno per aprirsi al pubblico. Pufuleti si muove come un infiltrato: esce ed entra da Povera, si guarda intorno, fa capolino all’ingresso e scherza con i suoi ammiratori a tratti increduli del suo atteggiamento. Quando le porte di Povera si chiudono, nessun angolo dello spazio è libero: le persone lo occupano del tutto e acclamano la sua entrata in scena. Ore 24: i riflettori si accendono. La luce è rossa e sembra di essere in Twin Peaks, precisamente nei sogni dell’agente Cooper nel momento in cui appare il nano e comincia a ballare: aspettativa e tensione altissime. “Gioia, avvicinatevi”, dice Pufuleti indossando un gilet catarifrangente e pantaloni mimetici. Nel giro di qualche secondo, la scena si trasforma in un pogo unanime da cui emerge un’unica voce che urla le sue canzoni. Lui li incita con svariati epiteti tanto da avere l’impressione che tutti sappiano parlare e capire il siciliano. In effetti si potrebbe pensare che, Pufuleti, riesca ad unire tutto ciò che la politica ha sempre diviso: l’Italia. Quaranta minuti di follia, il pubblico è soddisfatto ma vorrebbe che il concerto non finisse mai. Pufuleti è come uno tsunami: una mare di energia che si propaga lentamente per poi esplodere in tutta la sua forza. Poi le luci si spengono e resta una certezza: quando Pufuleti si esibisce, le percezioni che abbiamo del reale mutano, tutto ciò che è logico diventa irreale, ai limiti del nonsense. Ma una logica c’è: è quella di Pufuleti, un’overdose di energia.


Archibald MacLeish ha affermato che una poesia non deve significare, ma essere. È in questa frase che possiamo trovare la non chiave di lettura dei testi di Pufuleti. Pufuleti, infatti, non ama quando qualcuno gli chiede di cosa parlano i suoi componimenti: “una canzone o ti piace o non ti piace, non deve avere per forza un significato”. Ma le poesie, come le chimere, hanno la caratteristica di evocare frammenti del nostro passato: proprio ciò che avviene in Tumbulata, disco uscito quest’anno. Pufuleti ci catapulta, con le sue liriche – macchina del tempo, nel piccolo schermo della televisione italiana a cavallo fra gli anni ’90 e 2000, nei programmi offerti dal Gruppo Mediaset precisamente. Attraverso questa emittente, apprende la lingua italiana ed è da questi canali che Pufuleti estrae le immagini del suo linguaggio. Ascoltandolo, è come se sfogliassimo un piccolo dizionario dei personaggi televisivi: da Elisabetta Ferracini ad Alessandra Mussolini (Jigen); da Bruno Vespa a Toto Cutugno (Quasi); dall’esclamazione di Maurizio Costanzo “state boni” al Mulino Bianco (Agip); da Jigen e Ghemon a Umberto Bossi (Ya no es el mismo) e via dicendo. Inoltre ci sono i video che meriterebbero un approfondimento a parte. Girati da lui, sono il connubio perfetto tra il mondo analogico (VHS) e quello digitale. Come nei testi, anche in questo caso, filmati e ricordi del suo trascorso si intrecciano con immagini del presente. Non si tratta di semplici videoclip. Il suo è un vero e proprio linguaggio artistico riconducibile alla video art, una sorta di Pipilotti Rist del rap.

Perché Pufuleti piace e soprattutto perché non dovrebbe piacere? La risposta è semplice: perché, come ha scritto Elia Alovisi su Noisey, “non hai mai sentito un rapper italiano come Pufuleti”.

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